
L’economia tribale:
quando il non fare diventa abbondanza
di Matteo Minelli
La Civiltà ci ha indotto a credere che le popolazioni tribali lottino perennemente per garantirsi la mera sopravvivenza quotidiana. L’estenuante ricerca di acqua e cibo, la deprimente realizzazione di rifugi temporanei, le marce sfibranti; queste soltanto sarebbero le attività che dall’alba al tramonto riempiono le giornate dei membri delle tribù.
Immense e spossanti fatiche volte ad ottenere solo il minimo necessario, e talvolta nemmeno quello. È ovvio che, nell’ambito di questa ricostruzione, la natura avversa, l’assenza di tecnologie, la disorganizzazione e l’incompetenza sono gli elementi indicati come le cause principali della terribile condizione in cui da sempre versano i “selvaggi” di tutto il pianeta.
In definitiva l’economia tribale sarebbe un’economia della miseria, in cui è già un miracolo riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena.
Fino agli anni settanta nessuno, nemmeno all’interno del mondo antropologico, si arrischiò a mettere in dubbio questo racconto dogmaticoche oggi invece ci appare per quello che è:
una mistificazione totale della realtà.
Il merito di questa rivoluzione copernicana nell’ambito degli studi sui sistemi produttivi tribali è da ascrivere a Marshall Sahlins e al suo saggio "L’economia dell’età della pietra."
La conclusione a cui giunse è che i cacciatori-raccoglitori, nonostante le condizioni ambientali assai sfavorevoli, di certo non si ammazzano dalla fatica. Il periodo giornaliero dedicato al procacciamento dei beni primari come cibo, acqua e ricovero varia in media dalle tre alle quattro ore (Meno della metà delle nostre attuali ore lavorative!).
Oltretutto il lavoro procede in maniera intermittente e, se le condizioni materiali del gruppo lo consentono, può essere interrotto perfino per diversi giorni.
La stragrande maggioranza del tempo quotidiano di ogni individuo è impiegato in attività ludiche, ricreative, culturali e soprattutto in riposo.
Se per i latini l’ozio è il padre dei vizi,
per i figli della tribù soste, pause e
lunghe interruzioni di tutte le attività pratiche
sono il sale della vita....
Inframmezzare le occupazioni strettamente necessarie con momenti di break, quali chiacchierate, giochi e spuntini è semplicemente la norma.
Lo studio delle popolazioni tribali, infatti, avviene quando esse sono state da tempo sradicate dalle loro terre ancestrali e sospinte in aree geografiche ostili e con scarse risorse ambientali.
Come ci riescono?
Questo piccolo grande miracolo risulta possibile grazie ad una serie di strategie a lungo spettro messe in campo dalle varie comunità.
Tattiche legate dal medesimo filo conduttore: il non fare.

Discontinuità, sottoproduzione, inefficienza: tutto ciò che ci spaventa e che vediamo come un pericolo nella tribù è una parte importante della ricetta che porta ad un economia dell’abbondanza.
Una definizione che evidentemente ha infastidito e infastidisce ancora chi non vuole accettare che la macchina produttiva tribale,senza grandi sforzi e molto ad di sotto delle sue possibilità, riesce ad assicurare la soddisfazione completa di tutti i bisogni materiali della comunità.
...Agli uomini tribali sembra chiarissimo che l’economia, sciolta da ogni vincolo, finisce per fagocitare la stessa società in cui è nata, attraverso l’innesco di quelle disparità e ineguaglianze che da sempre essi rifuggono...
La divisione in ricchi e poveri, lo sfruttamento reciproco, l’alienazione, i disastri ambientali sono il prezzo che le società del primato economico debbono pagare.
Un sacrificio che i “selvaggi”
si guardano bene dal voler compiere.
Un sacrificio che noi, ritualmente, rinnoviamo ogni giorno sull’altare della Civiltà...
Fonte: http://www.emergenzeweb.it/2015/12/lantieconomicita-tribale-quando-il-non-fare-diventa-abbondanza/
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