l rapporto sull’andamento dell’occupazione reso noto venerdì
scorso non era poi malaccio. Ma tenuto conto di quanto continua a essere
depressa la nostra economia, ogni mese dovremmo in realtà creare oltre 300mila
nuovi posti di lavoro, non meno di 200mila. Come fa notare l’Economic Policy
Institute, di questo passo serviranno oltre cinque anni di crescita dei posti
di lavoro per ritornare ai livelli di disoccupazione anteriori alla Grande
Recessione.
La piena ripresa appare tuttora molto di là da venire. E, per
quanto mi riguarda, inizio a temere che possa non venire mai.
Poniamoci una domanda difficile: di preciso, che cosa ci
riporterà alla piena occupazione? Di certo, non possiamo fare affidamento sulla
politica fiscale. La combriccola di chi promuove l’austerity ha subito una
fenomenale batosta nel dibattito intellettuale, ma “stimolo” è ancora oggi una
parola blasfema. E ancora non si vede, e forse mai si vedrà, un ponderato
programma per la creazione di posti di lavoro.
L’aggressiva azione monetaria intrapresa dalla Federal
Reserve – qualcosa di simile a ciò che la Banca del Giappone sta collaudando
adesso – potrebbe servire allo scopo, ma invece di diventare più aggressiva la
Fed parla di “diminuire a poco a poco” i propri sforzi, e questo ha già inferto
danni concreti. Ma ne riparleremo tra un minuto.
Nondimeno, anche se non abbiamo e non avremo una politica
finalizzata alla creazione di posti di lavoro, possiamo quanto meno fare
affidamento sui naturali poteri di rigenerazione del settore pubblico?
Probabilmente no.
È vero che, dopo una recessione prolungata, di solito il
settore privato trova buoni motivi per ricominciare a spendere. Gli
investimenti in apparecchiature e software sono già di gran lunga maggiori
rispetto ai livelli anteriori alla recessione, in buon parte perché la
tecnologia fa progressi e se vogliono restare al passo le aziende devono
spendere. Dopo che in America, in pratica, non si sono costruite nuove case per
sei anni, il settore immobiliare sta cercando di predisporre un recupero.
Quindi sì, in definitiva l’economia sta dando qualche segnale di voler guarire.
Tuttavia, questo processo di guarigione non andrà molto
lontano se i policymaker lo intralceranno o lo fermeranno, in particolare
alzando i tassi di interesse. Non si tratta di una preoccupazione da poco. È
risaputo che un presidente della Fed dichiarò che suo compito era quello di
togliere di mezzo la caraffa del punch proprio quando l’atmosfera della festa
si stava ravvivando. Purtroppo, la storia ci offre molteplici esempi di
banchieri centrali che hanno levato la caraffa del punch prima ancora che la
festa avesse inizio.
I mercati finanziari, in realtà, stanno scommettendo che la
Fed presto ce ne offrirà un ulteriore esempio. I tassi di interesse a lungo
termine, che per lo più riflettono le aspettative sui futuri tassi a breve
termine, sono schizzati alle stelle dopo il rapporto sull’occupazione reso noto
venerdì, rapporto che – ripeto – è stato nel migliore dei casi appena
accettabile. Il settore immobiliare potrà cercare di darsi una mossa e
ripartire, ma il rilancio adesso deve vedersela con le spese di finanziamento
in fortissimo aumento: i tassi sui mutui trentennali sono cresciuti di un terzo
da quando due mesi fa la Fed ha iniziato a dire che intendeva ridurre i suoi
sforzi.
Perché sta accadendo tutto ciò? La causa, in parte, è che la
Fed si trova sotto le costanti pressioni dei falchi monetari, che vogliono
sempre una rigida politica monetaria e tassi di interesse più alti. Questi
falchi hanno trascorso anni interi a mettere in guardia dal fatto che c’era in
agguato un’inflazione galoppante.
Avevano torto, naturalmente, ma invece di cambiare idea si
sono semplicemente limitati a inventare nuovi motivi – la stabilità
finanziaria, e qualsiasi cosa saltasse loro in mente – per reclamare tassi più
alti. A questo punto è evidente che in fondo essere falchi monetari è per lo
più un modo per abbracciare quella forma di puritanesimo così ben espressa da
H.L. Mencken con queste parole: «La paura ossessionante che qualcuno, da
qualche parte, possa essere felice». Resta in ogni caso pericolosamente
influente.
Purtroppo, nei pregiudizi dei falchi monetari c’è in ballo
anche una questione di ordine tecnico. Le procedure statistiche alle quali
ricorrono spesso i policymaker per calcolare il “potenziale” economico – il
massimo livello di produzione e di occupazione che si può raggiungere senza dar
luogo a un surriscaldamento dell’inflazione – si sono rivelate fortemente
errate: esse interpretano qualsiasi recessione economica prolungata nel tempo
come un potenziale decadimento, così che i falchi possono mostrare tabelle e
fogli di calcolo, che si presume servano a dimostrare che non c’è granché
spazio per la crescita.
In sintesi, c’è un rischio concreto che una cattiva politica
soffochi la nostra ripresa, per altro già inadeguata. Ma gli elettori alla fine
non esigeranno di più? Ebbene, è proprio a questo riguardo che mi sento
particolarmente pessimista.
Si potrebbe pensare che un’economia povera in modo
continuativo – un’economia nella quale sono disoccupati milioni di persone che
potrebbero e dovrebbero essere proficuamente occupati, e che in molti casi sono
senza lavoro da moltissimo tempo – alla fine scateni lo sdegno dell’opinione
pubblica. Ma le scienze politiche dispongono ormai di indiscutibili prove
relative all’andamento dell’economia e alle elezioni: a contare è il ritmo col
quale avviene il cambiamento, non il livello.
Mettiamola in questi termini: se durante un anno di elezioni
la disoccupazione sale dal 6 al 7 per cento, il presidente in carica quasi
certamente ne esce sconfitto. Se invece la disoccupazione resta ferma all’8 per
cento per l’intero mandato del presidente in carica, molto probabilmente
quest’ultimo o quest’ultima vincerà un nuovo mandato. Questo significa che è
possibile esercitare una pressione politica davvero esigua per porre fine alla
nostra depressione che, per quanto piccola, si protrae. Presumo che un giorno
salterà fuori qualcosa e finalmente ci riporterà alla piena occupazione.
Tuttavia, non posso fare a meno di ricordare che l’ultima volta che ci trovammo
in una situazione del genere quel qualcosa fu la Seconda guerra mondiale.
Articolo di Paul Krugman per “The New York Times” pubblicato
da “la Repubblica” –
Traduzione di Anna Bissanti
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