lunedì 29 aprile 2013

NON CASTA, MA SEMPLICI VALVASSINI DEI GRANDI SIGNORI



Partiamo da alcune osservazioni della realtà italiana di questi giorni.

La casta politica si arrocca nel palazzo dopo la rielezione di Napolitano, che nomina in fretta e furia un giovin campione espressione della casta, Enrico Letta. La casta dei giornalisti, percepita come tale dalla popolazione infuriata, quando mette il naso fuori dagli studi televisivi e dalle redazioni è insultata quanto un Dario Franceschini al ristorante, castale politico ben riconoscibile, barba o non barba. La casta dei magistrati, che ha “partorito” come la montagna il topolino, cioè quel Piero Grasso che attualmente è presidente del senato e giudice in quiescenza, vorrebbe da sempre mandare in galera Berlusconi (con l’eccezione di Grasso) e influire con decisione sugli assetti politici nazionali, come se fosse questo l’unico compito che la storia, o chi per lei, gli ha affidato.







Si fa un gran parlare di “casta”, soprattutto in relazione al sistema dei partiti. A uso e consumo delle masse, si orienta la disapprovazione, il disprezzo e un odio per ora strisciante verso la casta, 


in particolare politica, onnipotente nel paese e blindata nelle sue prerogative, o verso una sua componente che si vuole screditare e ridimensionare quanto a consensi. Lo stesso Grillo, 


con il suo movimento protorivoluzionario, parla diffusamente di casta, identificandola senza tentennamenti con il nemico principale dei cittadini, del popolo sofferente, degli italiani tutti.

Di certo il potere di una casta suprema dovrebbe essere assoluto e non avere altri livelli sopra di sé. Sopra di se dovrebbe avere soltanto il cielo sconfinato, o al più un imperatore simbolico, di mediazione cielo-terra, alto-basso, divino-mondano, come accadeva nell’impero tradizionale del filosofo ed esoterico Julius Evola, di questi tempi completamente obliato perché non c’è più traccia di tradizione. In sintesi, una vera casta che si rispetti, orgogliosa del suo rango e delle sue prerogative, dovrebbe godere di piena autonomia decisionale, politica e strategica, e non essere semplicemente “executive”, sul libro paga di qualcun altro che se ne sta più in alto a decidere tutto e per tutti.
Due sono i sassolini che mi devo levare dalla scarpa, in questo caso.
Il primo sassolino è che non mi è mai andata giù l’espressione “casta” riferita alla politica, al giornalismo, all’accademismo o alla magistratura italiani. Una felice espressione, dal punto di vista del battage mediatico e della vendita di libri, diffusa ad arte dagli astuti Stella e Rizzo, guarda caso appartenenti loro stessi a una casta, quella dei giornalisti. Un‘espressione fuorviante, però, quando non la riferiamo alla tradizionale strutturazione sociale indiana – che è appunto castale – ma ai politici, ai giornalisti, ai magistrati e agli accademici nostrani.  La furbizia di Stella e Rizzo ha consentito ai due compari di far passare per il problema dei problemi la corruzione della casta politica nazionale, con abbondante descrizione di malcostume e pochezza, risolto il quale il paese si rasserena, si corrobora e riparte, mentre si tratta di un effetto della perdita irrimediabile di sovranità nazionale, dell’imposizione dell’euro e del dominio “politico” del mercato. Un effetto certamente grave, quanto la disoccupazione di massa e il drastico ridimensionamento dello stato sociale, ma pur sempre un semplice effetto e non la sorgente di tutti i mali. Ecco allora identificato il nemico principale, corrispondente alla casta politica che non vuole rinnovarsi, arroccata com’è nei suoi fortilizi per non perdere gli immeritati privilegi, ed ecco identificata anche la soluzione del problema: cambiare i dirigenti politici, fare largo ai giovani, “rinnovare la politica”. A quale scopo? Per ripartire sui binari dello sviluppo neocapitalistico illimitato, insostenibile benché sostenibile per definizione, e della imprescindibile, ma piuttosto fantomatica modernizzazione, sintetizzabile in meno lavoro per tutti e più finanza per pochi. Son proprio due farabutti, gli Stella e Rizzo della casta, che hanno intascato diritti d’autore e fama (castal-giornalistica?) con questo bel trucchetto, sviando le masse imbambolate dall’obiettivo principale: le ferali dinamiche neocapitalistiche imposte al paese.
Il secondo sassolino nella scarpa è che – se anche vogliamo insistere nell’usare l’espressione casta, e ci perdonino gli antichi bramini – i tanto vituperati politici italiani, i giornalisti pennivendoli, gli accademici prezzolati e i magistrati inquisitori (rigorosamente laici, però) sono soltanto degli “executive”, per usare un’espressione esotica organizzativo-aziendalistica, o meglio dei piccoli valvassini, inseriti in sistema globalistico-neofeudale che prevede la scomparsa, o il drastico ridimensionamento, dei vecchi stati nazionali. Non si dovrebbe più parlare di servitori dello stato, o addirittura comicamente del popolo, almeno per magistrati e politici, perché il servaggio è riservato, in esclusiva, al padrone straniero, alla classe finanziaria neodominante, quella che ci disprezza e vive off-shore, libera, felice, lontano dal volgo (e anche dai suoi valvassini) e per la quale le leggi valide “erga omnes” non valgono, non essendo a lei concretamente applicabili. Il nostro mondo non è più universi cives, spazio di civiltà pur nel conflitto fra le classi, ma uno spazio neofeudale globalizzato, eticamente imbarbarito, con pochi Signori, qualche valvassino e molta neoplebe. Per quanto riguarda i politici, sappiamo che non decidono ma eseguono decisioni prese molto più in alto, nell’empireo cielo che non richiede più mediazioni, ma soltanto obbedienza assoluta e applicazione delle linee politiche strategiche preconfezionate, quali, ad esempio, ridurre la sanità pubblica, prelevare dai conti correnti dei privati deprivandoli, privatizzare aziende strategiche, licenziare con facilità e in massa. Per quanto riguarda i giornalisti, questi marpioni dall’articolo facile, spesso improvvisato, sanno benissimo che per fare carriera, diventando editorialisti di grido, direttori di giornali, conduttori di programmi televisivi come Piazza Pulita (tanto per citarne uno fra i tanti disgustosi) devono scrivere e dire soltanto ciò che non disturba le Aristocrazie dominanti, perché altrimenti si finisce a buttar giù articoletti di cronaca nera, o di cronaca locale, per dieci o venti euro al pezzo, oppure si va a finire anche peggio, come il povero Pecorelli ai suoi tempi. Per quanto riguarda gli accademici, i professori e gli intellettuali, con particolare biasimo per economisti e giuslavoristi, la situazione è grossomodo simile, nel senso che bisogna fare i cani da guardia perché non penetrino e si diffondano idee “sovversive”, tali da mettere in pericolo la riproduzione sistemica neocapitalistica. Sia mai che qualcuno osi insinuare, con successo, calcoli alla mano e prove provate, che è necessario uscire urgentemente e brutalmente dall’euro per salvarsi, erigendo salutari barriere doganali contro la Germania e la Cina (per noi e per moltissimi europei due nemici mortali). Sia mai che ci si rifiuti di coprire gratuitamente i debiti accumulati dalle banche usuraie. Per quanto attiene alla magistratura – nella quale tutti sono tenuti ad avere e dichiarare fiducia, anche i politici inquisiti e messi sotto torchio – le inchieste devono partire al momento giusto, tenendo conto dell’aria che tira e della “voluntas dei”. Ci si muove quando bisogna colpire un politico indisciplinato, ad esempio, per dargli una lezione o toglierlo definitivamente dalla scena. Si attacca diffusamente Berlusconi, che non è certo il prediletto di Obama, della Merkel, di Soros e dell’eurozona, per “togliere le castagne dal fuoco” a coloro che vorrebbero governi più obbedienti e in perfetta linea con le politiche di rigore e di difesa dell’euro, rispettosi anche nella tempistica delle controriforme comandate. Spesso si approfitta delle inchieste commissionate sui “VIP” per creare corposi fascicoli processuali e fare una luminosa carriera con quelli. E’ chiaro che il valvassino deve temere il suo Signore, poiché è a lui e soltanto a lui che deve tutte le sue fortune e per uno sgarbo che gli fa, potrebbe perdere il posto, o addirittura finire in seri guai giudiziari, sputtanato irrimediabilmente in televisione e sui giornali. Anche gli stessi magistrati, se indisciplinati, possono finire per direttissima in Guatemala, nell’ipotesi più rosea – come quando ci si permette di coinvolgere Napolitano in certe inchieste, anziché distruggere subito le intercettazioni telefoniche che lo riguardano – oppure subire pesanti inchieste interne con il rischio di dire addio alla luminosa carriera.
Ecco che la casta – non orgogliosamente guerriera, non braminica o spirituale – altro non è se non una congrega di pavidi valvassini, legati mani e piedi non al paese di origine, non alla patria, non al generico “senso del dovere” che muove eroi e idealisti, ma ai Signori della mondializzazione, che simboleggiano la suprema aristocrazia neofeudale del terzo millennio, la nuova classe dominante di questo capitalismo. Politici, giornalisti, accademici e magistrati nostrani sono legati all’Aristocrazia del denaro, della finanza e dell’involuzione culturale, più per paura che per fedeltà, perché li può colpire in ogni momento e rimuovere a suo piacimento, quando non eseguono come dovrebbero i loro compiti, oppure quando osano ribellarsi, o semplicemente quando nicchiano davanti all’imperiosa richiesta di applicazione di leggi antipopolari.
Ed ecco che il principale problema italiano non è la miseranda casta dei valvassini, per quanto deleteria, dannosa, avida di risorse da dissipare, priva di scrupoli quanto i suoi padroni, ma quel modo storico di produzione, fatto di finanza sovrana, prevaricazione sociale, miseria, rischiavizzazione del lavoro, ingiustizia vergognosa e libero mercato, al quale gli stessi Signori della mondializzazione, per quanto Grandi, non possono sfuggire, essendone gli agenti strategici e il prodotto di rango più elevato.
In fede antiglobalista





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