Partiamo da alcune osservazioni della realtà italiana di questi giorni.
La
casta politica si arrocca nel palazzo dopo la rielezione di Napolitano,
che nomina in fretta e furia un giovin campione espressione della
casta, Enrico Letta. La casta dei giornalisti, percepita come tale dalla
popolazione infuriata, quando mette il naso fuori dagli studi
televisivi e dalle redazioni è insultata quanto un Dario Franceschini al
ristorante, castale politico ben riconoscibile, barba o non barba. La
casta dei magistrati, che ha “partorito” come la montagna il topolino,
cioè quel Piero Grasso
che attualmente è presidente del senato e giudice in quiescenza,
vorrebbe da sempre mandare in galera Berlusconi (con l’eccezione di
Grasso) e influire con decisione sugli assetti politici nazionali, come
se fosse questo l’unico compito che la storia, o chi per lei, gli ha
affidato.
Si
fa un gran parlare di “casta”, soprattutto in relazione al sistema dei
partiti. A uso e consumo delle masse, si orienta la disapprovazione, il
disprezzo e un odio per ora strisciante verso la casta,
in particolare politica, onnipotente nel paese e blindata nelle sue prerogative, o verso una sua componente che si vuole screditare e ridimensionare quanto a consensi. Lo stesso Grillo,
in particolare politica, onnipotente nel paese e blindata nelle sue prerogative, o verso una sua componente che si vuole screditare e ridimensionare quanto a consensi. Lo stesso Grillo,
con il suo movimento protorivoluzionario,
parla diffusamente di casta, identificandola senza tentennamenti con il
nemico principale dei cittadini, del popolo sofferente, degli italiani
tutti.
Di
certo il potere di una casta suprema dovrebbe essere assoluto e non
avere altri livelli sopra di sé. Sopra di se dovrebbe avere soltanto il
cielo sconfinato, o al più un imperatore simbolico, di mediazione
cielo-terra, alto-basso, divino-mondano, come accadeva nell’impero
tradizionale del filosofo ed esoterico Julius Evola, di questi tempi
completamente obliato perché non c’è più traccia di tradizione. In
sintesi, una vera casta che si rispetti, orgogliosa del suo rango e
delle sue prerogative, dovrebbe godere di piena autonomia decisionale,
politica e strategica, e non essere semplicemente “executive”, sul libro
paga di qualcun altro che se ne sta più in alto a decidere tutto e per
tutti.
Due sono i sassolini che mi devo levare dalla scarpa, in questo caso.
Il
primo sassolino è che non mi è mai andata giù l’espressione “casta”
riferita alla politica, al giornalismo, all’accademismo o alla
magistratura italiani. Una felice espressione, dal punto di vista del
battage mediatico e della vendita di libri, diffusa ad arte dagli astuti
Stella e Rizzo, guarda caso appartenenti loro stessi a una casta,
quella dei giornalisti. Un‘espressione fuorviante, però, quando non la
riferiamo alla tradizionale strutturazione sociale indiana – che è
appunto castale – ma ai politici, ai giornalisti, ai magistrati e agli
accademici nostrani. La furbizia di Stella e Rizzo ha
consentito ai due compari di far passare per il problema dei problemi la
corruzione della casta politica nazionale, con abbondante descrizione
di malcostume e pochezza, risolto il quale il paese si rasserena, si
corrobora e riparte, mentre si tratta di un effetto della perdita
irrimediabile di sovranità nazionale, dell’imposizione dell’euro e del
dominio “politico” del mercato. Un effetto certamente grave, quanto la
disoccupazione di massa e il drastico ridimensionamento dello stato
sociale, ma pur sempre un semplice effetto e non la sorgente di tutti i
mali. Ecco allora identificato il nemico principale, corrispondente alla
casta politica che non vuole rinnovarsi, arroccata com’è nei suoi
fortilizi per non perdere gli immeritati privilegi, ed ecco identificata
anche la soluzione del problema: cambiare i dirigenti politici, fare
largo ai giovani, “rinnovare la politica”. A quale scopo? Per ripartire
sui binari dello sviluppo neocapitalistico illimitato, insostenibile
benché sostenibile per definizione, e della imprescindibile, ma
piuttosto fantomatica modernizzazione, sintetizzabile in meno lavoro per
tutti e più finanza per pochi. Son proprio due farabutti, gli Stella e
Rizzo della casta, che hanno intascato diritti d’autore e fama
(castal-giornalistica?) con questo bel trucchetto, sviando le masse
imbambolate dall’obiettivo principale: le ferali dinamiche
neocapitalistiche imposte al paese.
Il
secondo sassolino nella scarpa è che – se anche vogliamo insistere
nell’usare l’espressione casta, e ci perdonino gli antichi bramini – i
tanto vituperati politici italiani, i giornalisti pennivendoli, gli
accademici prezzolati e i magistrati inquisitori (rigorosamente laici,
però) sono soltanto degli “executive”, per usare un’espressione esotica
organizzativo-aziendalistica, o meglio dei piccoli valvassini, inseriti
in sistema globalistico-neofeudale che prevede la scomparsa, o il
drastico ridimensionamento, dei vecchi stati nazionali. Non si dovrebbe
più parlare di servitori dello stato, o addirittura comicamente del
popolo, almeno per magistrati e politici, perché il servaggio è
riservato, in esclusiva, al padrone straniero, alla classe finanziaria
neodominante, quella che ci disprezza e vive off-shore, libera, felice,
lontano dal volgo (e anche dai suoi valvassini) e per la quale le leggi
valide “erga omnes” non valgono, non essendo a lei concretamente
applicabili. Il nostro mondo non è più universi cives, spazio di civiltà
pur nel conflitto fra le classi, ma uno spazio neofeudale globalizzato,
eticamente imbarbarito, con pochi Signori, qualche valvassino e molta
neoplebe. Per quanto riguarda i politici, sappiamo che non decidono ma
eseguono decisioni prese molto più in alto, nell’empireo cielo che non
richiede più mediazioni, ma soltanto obbedienza assoluta e applicazione
delle linee politiche strategiche preconfezionate, quali, ad esempio,
ridurre la sanità pubblica, prelevare dai conti correnti dei privati
deprivandoli, privatizzare aziende strategiche, licenziare con facilità e
in massa. Per quanto riguarda i giornalisti, questi marpioni
dall’articolo facile, spesso improvvisato, sanno benissimo che per fare
carriera, diventando editorialisti di grido, direttori di giornali,
conduttori di programmi televisivi come Piazza Pulita (tanto per citarne
uno fra i tanti disgustosi) devono scrivere e dire soltanto ciò che non
disturba le Aristocrazie dominanti, perché altrimenti si finisce a
buttar giù articoletti di cronaca nera, o di cronaca locale, per dieci o
venti euro al pezzo, oppure si va a finire anche peggio, come il povero
Pecorelli ai suoi tempi. Per quanto riguarda gli accademici, i
professori e gli intellettuali, con particolare biasimo per economisti e
giuslavoristi, la situazione è grossomodo simile, nel senso che bisogna
fare i cani da guardia perché non penetrino e si diffondano idee
“sovversive”, tali da mettere in pericolo la riproduzione sistemica
neocapitalistica. Sia mai che qualcuno osi insinuare, con successo,
calcoli alla mano e prove provate, che è necessario uscire urgentemente e
brutalmente dall’euro per salvarsi, erigendo salutari barriere doganali
contro la Germania e la Cina (per noi e per moltissimi europei due
nemici mortali). Sia mai che ci si rifiuti di coprire gratuitamente i
debiti accumulati dalle banche usuraie. Per quanto attiene alla
magistratura – nella quale tutti sono tenuti ad avere e dichiarare
fiducia, anche i politici inquisiti e messi sotto torchio – le inchieste
devono partire al momento giusto, tenendo conto dell’aria che tira e
della “voluntas dei”. Ci si muove quando bisogna colpire un politico
indisciplinato, ad esempio, per dargli una lezione o toglierlo
definitivamente dalla scena. Si attacca diffusamente Berlusconi, che non
è certo il prediletto di Obama, della Merkel, di Soros e dell’eurozona,
per “togliere le castagne dal fuoco” a coloro che vorrebbero governi
più obbedienti e in perfetta linea con le politiche di rigore e di
difesa dell’euro, rispettosi anche nella tempistica delle controriforme
comandate. Spesso si approfitta delle inchieste commissionate sui “VIP”
per creare corposi fascicoli processuali e fare una luminosa carriera
con quelli. E’ chiaro che il valvassino deve temere il suo Signore,
poiché è a lui e soltanto a lui che deve tutte le sue fortune e per uno
sgarbo che gli fa, potrebbe perdere il posto, o addirittura finire in
seri guai giudiziari, sputtanato irrimediabilmente in televisione e sui
giornali. Anche gli stessi magistrati, se indisciplinati, possono finire
per direttissima in Guatemala, nell’ipotesi più rosea – come quando ci
si permette di coinvolgere Napolitano in certe inchieste, anziché
distruggere subito le intercettazioni telefoniche che lo riguardano –
oppure subire pesanti inchieste interne con il rischio di dire addio
alla luminosa carriera.
Ecco
che la casta – non orgogliosamente guerriera, non braminica o
spirituale – altro non è se non una congrega di pavidi valvassini,
legati mani e piedi non al paese di origine, non alla patria, non al
generico “senso del dovere” che muove eroi e idealisti, ma ai Signori
della mondializzazione, che simboleggiano la suprema aristocrazia
neofeudale del terzo millennio, la nuova classe dominante di questo
capitalismo. Politici, giornalisti, accademici e magistrati nostrani
sono legati all’Aristocrazia del denaro, della finanza e
dell’involuzione culturale, più per paura che per fedeltà, perché li può
colpire in ogni momento e rimuovere a suo piacimento, quando non
eseguono come dovrebbero i loro compiti, oppure quando osano ribellarsi,
o semplicemente quando nicchiano davanti all’imperiosa richiesta di
applicazione di leggi antipopolari.
Ed
ecco che il principale problema italiano non è la miseranda casta dei
valvassini, per quanto deleteria, dannosa, avida di risorse da
dissipare, priva di scrupoli quanto i suoi padroni, ma quel modo storico
di produzione, fatto di finanza sovrana, prevaricazione sociale,
miseria, rischiavizzazione del lavoro, ingiustizia vergognosa e libero
mercato, al quale gli stessi Signori della mondializzazione, per quanto
Grandi, non possono sfuggire, essendone gli agenti strategici e il
prodotto di rango più elevato.
In fede antiglobalista
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