martedì 30 aprile 2013

SINTOMI E PERICOLI



Gli spari davanti Palazzo Chigi sono quello che sembrano: un sintomo. La loro oggettiva importanza politica traspare dalle onde reattive che provocano, le quali rivelano molto sul potere politico e la sua (in)capacità di trovare soluzioni alla malattia del paese; quindi sull'incapacità far rientrare anche i sintomi.

 
Sintomi e pericoli



Al contrario, quello che abbiamo visto in opera tra ieri e oggi – nelle dichiarazioni dei “politici con poltrona” e negli editoriali di molti media mainstream – è l'esibizione di una coazione a ripetere che rifiuta di prender atto dei problemi nella loro specificità e attualità. 


Una grande esibizione di retoriche pret a porter, riesumate così com'erano 30 o 40 anni fa. Un gran gridare all'emergenza, al pericolo, alla necessità di silenziare le critiche ai governo uscenti o nascenti, e di mettere tra parentesi le tragedia sociali reali per assicurare “serenità” al puro esercizio del potere conto terzi. L'ennesimo tentativo di ridurre il complesso al semplice, un clima generale a colpe individuali. Uno schema collaudato nei decenni, efficace sul piano mediatico immediato, ma alla lunga instupidente.



Proviamo ad andare con ordine.



Il muratore disoccupato che è arrivato davanti al portone del Palazzo è anche il primo che abbia interrotto la catena dei suicidi – tra lavoratori licenziati e piccoli imprenditori falliti – e rovesciato in un gesto disperato “contro la politica” quel “senso comune” che viaggia a fior di pelle. La rottura di ogni legame sociale, ideale, politico, solidale - che è sempre un obiettivo di ogni potere progettualmente debole - da un lato ostacola il formarsi di un'opposizione politica di massa, dall'altro apre la strada a mille percors di uscita individuale dal tunnel. Sembra geniale, si sta rivelando invece pericoloso. Non è affatto detto che l'autoeliminazione debba restare l'opzione preferita dai subalterni. Ma lo sfogo individuale, per quanto estremo e omicida, è pur sempre ciò che di meno pericoloso esiste per un sistema di potere. Ci vanno di mezzo, di solito, i “cuscinetti protettivi” schierati intorno ai posti di comando – le forze dell'ordine, ovviamente, ma anche gli impiegati di Equitalia o altri dipendenti di agenzie viste come succursali dello sceriffo di Nottingham; mentre nel “politico con poltrona” risorge per un attimo il brivido del pensiero “in qualsiasi momento potrei trovarmi davanti un disperato armato di pistola invece che di suppliche”. Nulla di preoccupante, le case farmaceutiche forniscono tranquillanti per ogni esigenza...



La reazione “governista” è invece molto più interessante. La “fronda” parlamentare del Pd è immediatamente rientrata (Civati ci farà sapere a ore se obbedisce agli ordini di scuderia oppure chiude qui la sua carriera politica), mentre il malessere della base sofferente dovrà ancora una volta scegliere tra ingoiare quintali di rospi (l'alleato Brunetta compreso) oppure alzarsi da tavola e andare altrove, di solito in pensione, lontano da questa “politica”.



Grillo ha fatto da parafulmine in mancanza di qualcosa di più serio, e la sua recitazione sopra le righe, gonfia di parole tonitruanti e gesti politici prudentemente aventiniani, è diventata la pietra dello scandalo. Come se le Di Girolamo, gli Alemanno, i La Russa e i Cicchitto, le Santanché, le Lorenzin o i Sallusti fossero degli esempi di parlar forbito e understatement.



Se persino Vendola ha cominciato a sentire “puzzetta di regime” vuol dire che il regime è da tempo all'opera. Ma il cervello, il comando, non sta a Palazzo Chigi. E forse non più nemmeno, o soltanto, a Bruxelles. Questo governo, dicevamo prima della “sparatoria”, è frutto di un compromesso in cui gli Stati Uniti hanno deciso di far pesare molto di più i propri interessi. Anche a costo di usare la fogna berlusconiana come massa di manovra temporanea.



Molto sta cambiando sotto i nostri occhi, anche a dispetto di quel che appare evidentissimo: una classe “politica con poltrona” che si chiude a riccio sperando che la tempesta della crisi passi. Molto di più cambierà nei prossimi mesi, quando le (poche) promesse elettorali – tipo “restituiamo l'Imu” e “stimoliamo la crescita” - si tramuteranno in tagli furibondi alla spesa pubblica, riduzione dell'occupazione e permanente assenza di ammortizzatori sociali adeguati (il “reddito minimo di cittadinanza” resta in Italia uno slogan buono per tutti, ma da realizzare mai).



Una sola cosa è facile prevedere: una “classe politica con poltrona” così debole, incollata con lo sputo ma divisa tra competenti e incompatibili, reagirà a qualsiasi contestazione di massa come davanti al muratore disoccupato armato. Invocherà l'intangibilità del proprio potere e delle decisioni imposte dalla Troika, ridurrà ulteriormente i margini di mediazione sociale (i lavoratori di Palermo, venerdì sera, hanno già sperimentato cosa voglia dire), “consiglierà” con maggiore fermezza quale linguaggio i media dovranno adottare (Monti e Napolitano, sul tema, si sono già più volte esibiti in numeri da Minculpop).



Battere questo avversario e questo modo apertamente antidemocratico di governare si può. Ma bisogna avere rabbia calda dentro e cervello freddo in ogni istante. Bisogna cancellare definitivamente sia la ricorrente tentazione del rifugiarsi nel “meno peggio”, sia l'autoreferenzialità da “piccolo gruppo”, pessima eredità di altre epoche.



Un movimento di massa politicamente indipendente può e deve raccogliere e coordinare la marea di conflitti esistenti, di straordinaria tensione sociale ma tutti molto isolati; può e deve mettere in campo una proposta di “politica che non mira alla poltrona”, fatta di mobilitazione sociale e orizzonte anticapitalista. Questa la nostra risposta e la nostra scommessa. A partire dalla prima assemblea, a Bologna, l'11 maggio.

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