Proponiamo in ANTEPRIMA per L’Indipendenza la traduzione integrale in italiano dell’articolo What Keeps the States United?, una recensione da parte di Joseph Baldacchino, presidente del National Humanities Institute e co-direttore del Center for Constitutional Studies al libro Rethinking American Union for the Twenty-First Century di Donald Livingston. (Traduzione di Luca Fusari)
Il sistema politico americano è afflitto da problemi apparentemente irrisolvibili: diffusa disoccupazione di lunga durata, redditi stagnanti, ricchezza sempre più concentrata in poche mani, deficit annuali di trilioni di dollari e guerre infinite. Le libertà costituzionali, in alcuni casi risalenti alla Magna Carta sono state espulse, apparentemente al fine di proteggerci contro il terrorismo.
Attraverso il National Defense Authorization Act (NDAA), il Congresso ha dato mandato al presidente di imprigionare senza accusa né processo qualsiasi americano che decida, sulla base di prove segrete, che egli sia una minaccia alla sicurezza nazionale. Barack Obama e il suo procuratore generale affermano che il presidente ha il diritto di uccidere sommariamente chiunque nel mondo, senza escludere cittadini americani, senza un dovuto procedimento legale. Il Pentagono ha ceduto in prestito i droni senza pilota alle forze di polizia locali e statali per spiare i cittadini senza mandato di perquisizione.
Le elezioni del 2008 sono state interpretate da molti come un ripudio della tortura e di altri pericoli alle libertà civili supportate da George W. Bush. Cinque anni dopo, Obama apparentemente ha raddoppiato le politiche che aveva condannato. Nonostante il voto contrario, le istituzioni politiche americane continuano sempre più a riservare la stessa ricetta. La disapprovazione pubblica nei confronti del Congresso ultimamente ha raggiunto il 90-95%. Il sistema è ampiamente giudicato come “marcio”.
Secondo il libro Rethinking American Union for the Twenty-First Century, a cura di Donald Livingston, un rimedio per la disfunzione del sistema politico americano è un argomento raramente menzionato, cioè le sue dimensioni di scala. La tesi di questa raccolta di saggi è che il governo americano sia diventato troppo grande e troppo centralizzato per essere coerente con una politica libera, efficace o veramente rappresentativa. Gli autori concordano sull’inaccettabilità di un governo top-down così come praticato nel Paese: avere 435 membri alla Camera, 100 senatori, 9 giudici della Corte Suprema e un presidente che comanda più di 300 milioni di persone ponendo una regola valida per tutti. Gli autori condividono l’idea risalente all’antica Grecia, che per avere un reale autogoverno, le repubbliche debbano essere piccole in popolazione e territorio, cioè interamente differenti da ciò che è oggi l’America. Considerano necessario delegare il potere politico a più piccole unità maggiormente gestibili di governo. Con vari gradi di persuasione, gli autori affrontano temi filosofici, politici, morali e costituzionali attinenza a tale compito.
Livingston, in un suo saggio, presenta diverse possibilità. Una di queste, suggerite come punto di partenza per il dibattito, è la proposta del compianto George Kennan, architetto della politica statunitense per contenere l’Unione Sovietica: dividere l’Unione in «una dozzina di costituite repubbliche» New England, gli Stati del Medio-Atlantico, il Midwest , il nord-ovest, il sud-ovest, il Texas, il Vecchio Sud, la Florida, l’Alaska, e tre aree urbane autonome: New York, Chicago e Los Angeles. Livingston ammette che l’idea di Kennan «provocherà un po’ di panico», pur insistendo che l’idea di dividere l’America in diverse federazioni alleate è stata condivisa da numerosi primi leaders americani, tra cui Thomas Jefferson, James Monroe, Henry Clay e forse James Madison.
Un altro scenario, tra tutti quello maggiormente condiviso da Livingston, potrebbe essere quello di riconfigurare gli Stati Uniti lungo le linee del pensiero di David Hume di una repubblica ideale. Livingston ricorda che per Hume una piccola patria è «il governo più felice del mondo» ma «può essere sottomessa da una grande forza dal di fuori». La soluzione è una grande repubblica con «tutti i vantaggi di un grande e piccolo Commonwealth».
Come riassume Livingston, Hume aveva immaginato una vasta repubblica delle dimensioni della Gran Bretagna o della Francia divisa in 100 piccole repubbliche, ognuna di queste suddivise in 100 parrocchie. I membri di ogni parrocchia ogni anno si riuniscono per eleggere un rappresentante, ogni piccola repubblica eleggerebbe 100 rappresentanti. Il legislatore sceglie tra essi 10 magistrati per svolgere le funzioni esecutive e giudiziarie della Repubblica e un senatore quale rappresentante presso la capitale nazionale. Dei 100 senatori eletti, 10 sono a loro volta scelti per servire nel governo nazionale e nella magistratura. Le leggi sono normalmente proposte da Senato nazionale ed inviate alle repubbliche provinciali per la ratifica. Ogni repubblica ha un voto indipendentemente dalla sua popolazione.
Nel governo degli Stati Uniti sul modello della grande repubblica di Hume, secondo Livingston, è necessaria l’abolizione della Camera dei Rappresentanti e delle legislature statali trasformandole in un insieme di legislature nazionali. Il Senato dovrebbe proporre la legislazione che andrebbe ratificata da una maggioranza di Stati, ciascuno Stato avrebbe un solo voto. Legislazioni impopolari adottate a Washington, come l’Obamacare, non avrebbero alcuna speranza di essere approvate dagli organi legislativi dell’Iowa, South Carolina, Wyoming… Sarebbe molto più difficile per gli interessi speciali influenzare una legislatura nazionale composto da 5 mila o più membri dispersi tra 50 capitali di Stato.
Un terzo modello di governo discusso da Livingston sarebbe quello di tornare alla Costituzione del 1787. Ai sensi di tale Costituzione, scrive Livingston, il sistema politico americano non era una Repubblica «ma una federazione di repubbliche…. Ogni Stato americano potrebbe essere visto come un’ampia repubblica humeiana, ma tale federazione di Stati non lo poteva essere». Il governo centrale poteva comandare sugli individui solo nell’ambito dei poteri ad esso delegati dagli Stati sovrani.
«Dato questo quadro, la salvaguardia finale del repubblicanesimo in America fu e potrebbe essere solo una qualche forma di legittima interposizione allo Stato, di suo annullamento o secessione», scrive Livingston. L’autore assieme ai saggisti Kent Masterson Brown e Marshall DeRosa, mostrano delle prove che questi rimedi erano ampiamente considerati come costituzionali in ogni parte del Paese. Erano regolarmente invocati anteguerra nei discorsi pubblici al fine di contenere il governo centrale.
Secondo gli autori, dal 1865, dopo che Lincoln negò che gli Stati erano o avessero mai avuto società politiche sovrane, gli Stati non hanno goduto della forma di governo repubblicana garantita dall’articolo IV. Essi sostengono che le restrizioni costituzionali sul governo centrale non saranno prese sul serio a meno che non rivengano pienamente considerate legali la nullificazione e o la secessione da parte degli Stati. Le questioni di praticità sono affrontate nei saggi di Yuri Maltsev sulla separazione pacifica di quindici Stati dall’Unione Sovietica quale esempio per l’America; da Kirkpatrick Sale sulle questioni delle dimensioni e misure ottimali per il governo repubblicano, e da Rob Williams del movimento secessionista nel Vermont.
Grandi parte del libro è dedicato a smontare la teoria avanzata dai nazionalisti Lincoln, Daniel Webster e Joseph Story negante il diritto degli Stati alla secessione. In contrasto con le loro idee, come ha spiegato Madison nel Federalist 39, la Costituzione doveva essere ratificata da americani «non come individui che compongono un unica nazione, ma come membri appartenenti a distinti ed indipendenti Stati». Questo articolo VII afferma esplicitamente che la Costituzione, così come redatta e ratificata, è stata una «Costituzione tra Stati così ratificata da essi». Tre Stati, tra cui i due più grandi, Virginia e New York hanno fatto loro la risoluzione di ratifica salvo espressamente indicare i diritti dei loro popoli a recedere da essa.
Gli autori fanno a meno di possibili casi forti per alcune delle loro posizioni. In un capitolo sul X° emendamento, per esempio, DeRosa fa notare che quando Lincoln ha chiesto a 75 mila miliziani di sedare una insurrezione negli Stati del sud il 15 aprile 1861, ha basato la sua autorità per farlo in qualità di comandante in capo (articolo II, sezione 2) e sul Militia Act del 1792, modificato nel 1795. «Sia l’autorità costituzionale che statutaria per richiamare la milizia si basava sull’incostituzionalità della secessione», sostiene DeRosa. «Se la secessione era incostituzionale, allora gli Stati erano parte dell’Unione e sotto la giurisdizione del governo federale. In caso contrario, gli Stati secessionisti erano al di fuori della competenza giurisdizionale…». In effetti, la Costituzione (articolo IV, sezione 4) vieta categoricamente al governo federale di sedare una ribellione in uno Stato senza l’autorizzazione delle autorità statali, indipendentemente dall’appartenenza dello Stato all’Unione.
La distinzione nel Militia Act è circa la richiesta del permesso dal governo dello Stato per la soppressione ad opera del governo federale di «un’insurrezione in qualsiasi Stato contro il governo dello stesso», ma non riguarda il permesso del governo dello Stato di invio di truppe in uno Stato per sedare una ribellione diretta contro le leggi degli Stati Uniti, mancando di autorità costituzionale. Nelle sue Notes on the Federal Convention, Madison riporta gli sforzi per consentire l’introduzione di truppe federali in uno Stato in tali casi senza il permesso del suo governo, i quali reiteratamente non ebbero ottenuto il necessario sostegno da una maggioranza di delegazioni statali. Prevalente invece fu la posizione del delegato Luther Martin del Maryland, il quale dichiarò che, almeno per quanto riguarda la violenza domestica interessata, «il consenso dello Stato deve precedere l’introduzione di qualsiasi e qualunque forza estranea».
In altri temi, gli autori evidenziano ciò che sembra essere necessario per raggiungere il loro grande scopo. In un capitolo intitolato The Founding Fathers of Constitutional Subversion Thomas DiLorenzo scrive che, dopo il fallimento da parte di Alexander Hamilton al congresso federale nel raggiungere il suo obiettivo di un «monopolistico governo monarchico», lui e suoi “eredi politici” come John Marshall e Joseph Story deliberatamente sovvertirono praticamente tutti i limiti del governo centrale. Nessuno potrebbe contestare che per gli standard del tempo questi uomini hanno favorito un energico governo in genere, ma non ne consegue che questi abbiano lavorato costantemente o disonestamente per minare i legittimi poteri degli Stati. Il loro “nazionalismo” fu limitato e qualificato.
Sono famose le sentenze del giudice Marshall sul potere federale, non altrettanto note sono le sue opinioni in difesa della competenza riservata agli Stati. In Gibbons v Ogden (1824), Marshall ha sottolineato che il potere del Congresso di regolare il commercio tra gli Stati non si applica «al commercio che è completamente interno, che viene effettuato tra uomo ed uomo in uno Stato o tra le diverse parti dello stesso Stato…. Il commercio interno completamente … può essere considerato come competenza riservata allo Stato stesso». Marshall ha inoltre dichiarato che la produzione non essendo parte del commercio, in nessun caso il governo federale può estendere il proprio potere commerciale a problemi di produzione o correlati alla sicurezza o alla qualità. Per Marshall queste ultime funzioni,
Di Hamilton stesso, DiLorenzo scrive che:
Il sistema politico americano è afflitto da problemi apparentemente irrisolvibili: diffusa disoccupazione di lunga durata, redditi stagnanti, ricchezza sempre più concentrata in poche mani, deficit annuali di trilioni di dollari e guerre infinite. Le libertà costituzionali, in alcuni casi risalenti alla Magna Carta sono state espulse, apparentemente al fine di proteggerci contro il terrorismo.
Attraverso il National Defense Authorization Act (NDAA), il Congresso ha dato mandato al presidente di imprigionare senza accusa né processo qualsiasi americano che decida, sulla base di prove segrete, che egli sia una minaccia alla sicurezza nazionale. Barack Obama e il suo procuratore generale affermano che il presidente ha il diritto di uccidere sommariamente chiunque nel mondo, senza escludere cittadini americani, senza un dovuto procedimento legale. Il Pentagono ha ceduto in prestito i droni senza pilota alle forze di polizia locali e statali per spiare i cittadini senza mandato di perquisizione.
Le elezioni del 2008 sono state interpretate da molti come un ripudio della tortura e di altri pericoli alle libertà civili supportate da George W. Bush. Cinque anni dopo, Obama apparentemente ha raddoppiato le politiche che aveva condannato. Nonostante il voto contrario, le istituzioni politiche americane continuano sempre più a riservare la stessa ricetta. La disapprovazione pubblica nei confronti del Congresso ultimamente ha raggiunto il 90-95%. Il sistema è ampiamente giudicato come “marcio”.
Secondo il libro Rethinking American Union for the Twenty-First Century, a cura di Donald Livingston, un rimedio per la disfunzione del sistema politico americano è un argomento raramente menzionato, cioè le sue dimensioni di scala. La tesi di questa raccolta di saggi è che il governo americano sia diventato troppo grande e troppo centralizzato per essere coerente con una politica libera, efficace o veramente rappresentativa. Gli autori concordano sull’inaccettabilità di un governo top-down così come praticato nel Paese: avere 435 membri alla Camera, 100 senatori, 9 giudici della Corte Suprema e un presidente che comanda più di 300 milioni di persone ponendo una regola valida per tutti. Gli autori condividono l’idea risalente all’antica Grecia, che per avere un reale autogoverno, le repubbliche debbano essere piccole in popolazione e territorio, cioè interamente differenti da ciò che è oggi l’America. Considerano necessario delegare il potere politico a più piccole unità maggiormente gestibili di governo. Con vari gradi di persuasione, gli autori affrontano temi filosofici, politici, morali e costituzionali attinenza a tale compito.
Livingston, in un suo saggio, presenta diverse possibilità. Una di queste, suggerite come punto di partenza per il dibattito, è la proposta del compianto George Kennan, architetto della politica statunitense per contenere l’Unione Sovietica: dividere l’Unione in «una dozzina di costituite repubbliche» New England, gli Stati del Medio-Atlantico, il Midwest , il nord-ovest, il sud-ovest, il Texas, il Vecchio Sud, la Florida, l’Alaska, e tre aree urbane autonome: New York, Chicago e Los Angeles. Livingston ammette che l’idea di Kennan «provocherà un po’ di panico», pur insistendo che l’idea di dividere l’America in diverse federazioni alleate è stata condivisa da numerosi primi leaders americani, tra cui Thomas Jefferson, James Monroe, Henry Clay e forse James Madison.
Un altro scenario, tra tutti quello maggiormente condiviso da Livingston, potrebbe essere quello di riconfigurare gli Stati Uniti lungo le linee del pensiero di David Hume di una repubblica ideale. Livingston ricorda che per Hume una piccola patria è «il governo più felice del mondo» ma «può essere sottomessa da una grande forza dal di fuori». La soluzione è una grande repubblica con «tutti i vantaggi di un grande e piccolo Commonwealth».
Come riassume Livingston, Hume aveva immaginato una vasta repubblica delle dimensioni della Gran Bretagna o della Francia divisa in 100 piccole repubbliche, ognuna di queste suddivise in 100 parrocchie. I membri di ogni parrocchia ogni anno si riuniscono per eleggere un rappresentante, ogni piccola repubblica eleggerebbe 100 rappresentanti. Il legislatore sceglie tra essi 10 magistrati per svolgere le funzioni esecutive e giudiziarie della Repubblica e un senatore quale rappresentante presso la capitale nazionale. Dei 100 senatori eletti, 10 sono a loro volta scelti per servire nel governo nazionale e nella magistratura. Le leggi sono normalmente proposte da Senato nazionale ed inviate alle repubbliche provinciali per la ratifica. Ogni repubblica ha un voto indipendentemente dalla sua popolazione.
Nel governo degli Stati Uniti sul modello della grande repubblica di Hume, secondo Livingston, è necessaria l’abolizione della Camera dei Rappresentanti e delle legislature statali trasformandole in un insieme di legislature nazionali. Il Senato dovrebbe proporre la legislazione che andrebbe ratificata da una maggioranza di Stati, ciascuno Stato avrebbe un solo voto. Legislazioni impopolari adottate a Washington, come l’Obamacare, non avrebbero alcuna speranza di essere approvate dagli organi legislativi dell’Iowa, South Carolina, Wyoming… Sarebbe molto più difficile per gli interessi speciali influenzare una legislatura nazionale composto da 5 mila o più membri dispersi tra 50 capitali di Stato.
Un terzo modello di governo discusso da Livingston sarebbe quello di tornare alla Costituzione del 1787. Ai sensi di tale Costituzione, scrive Livingston, il sistema politico americano non era una Repubblica «ma una federazione di repubbliche…. Ogni Stato americano potrebbe essere visto come un’ampia repubblica humeiana, ma tale federazione di Stati non lo poteva essere». Il governo centrale poteva comandare sugli individui solo nell’ambito dei poteri ad esso delegati dagli Stati sovrani.
«Dato questo quadro, la salvaguardia finale del repubblicanesimo in America fu e potrebbe essere solo una qualche forma di legittima interposizione allo Stato, di suo annullamento o secessione», scrive Livingston. L’autore assieme ai saggisti Kent Masterson Brown e Marshall DeRosa, mostrano delle prove che questi rimedi erano ampiamente considerati come costituzionali in ogni parte del Paese. Erano regolarmente invocati anteguerra nei discorsi pubblici al fine di contenere il governo centrale.
Secondo gli autori, dal 1865, dopo che Lincoln negò che gli Stati erano o avessero mai avuto società politiche sovrane, gli Stati non hanno goduto della forma di governo repubblicana garantita dall’articolo IV. Essi sostengono che le restrizioni costituzionali sul governo centrale non saranno prese sul serio a meno che non rivengano pienamente considerate legali la nullificazione e o la secessione da parte degli Stati. Le questioni di praticità sono affrontate nei saggi di Yuri Maltsev sulla separazione pacifica di quindici Stati dall’Unione Sovietica quale esempio per l’America; da Kirkpatrick Sale sulle questioni delle dimensioni e misure ottimali per il governo repubblicano, e da Rob Williams del movimento secessionista nel Vermont.
Grandi parte del libro è dedicato a smontare la teoria avanzata dai nazionalisti Lincoln, Daniel Webster e Joseph Story negante il diritto degli Stati alla secessione. In contrasto con le loro idee, come ha spiegato Madison nel Federalist 39, la Costituzione doveva essere ratificata da americani «non come individui che compongono un unica nazione, ma come membri appartenenti a distinti ed indipendenti Stati». Questo articolo VII afferma esplicitamente che la Costituzione, così come redatta e ratificata, è stata una «Costituzione tra Stati così ratificata da essi». Tre Stati, tra cui i due più grandi, Virginia e New York hanno fatto loro la risoluzione di ratifica salvo espressamente indicare i diritti dei loro popoli a recedere da essa.
Gli autori fanno a meno di possibili casi forti per alcune delle loro posizioni. In un capitolo sul X° emendamento, per esempio, DeRosa fa notare che quando Lincoln ha chiesto a 75 mila miliziani di sedare una insurrezione negli Stati del sud il 15 aprile 1861, ha basato la sua autorità per farlo in qualità di comandante in capo (articolo II, sezione 2) e sul Militia Act del 1792, modificato nel 1795. «Sia l’autorità costituzionale che statutaria per richiamare la milizia si basava sull’incostituzionalità della secessione», sostiene DeRosa. «Se la secessione era incostituzionale, allora gli Stati erano parte dell’Unione e sotto la giurisdizione del governo federale. In caso contrario, gli Stati secessionisti erano al di fuori della competenza giurisdizionale…». In effetti, la Costituzione (articolo IV, sezione 4) vieta categoricamente al governo federale di sedare una ribellione in uno Stato senza l’autorizzazione delle autorità statali, indipendentemente dall’appartenenza dello Stato all’Unione.
La distinzione nel Militia Act è circa la richiesta del permesso dal governo dello Stato per la soppressione ad opera del governo federale di «un’insurrezione in qualsiasi Stato contro il governo dello stesso», ma non riguarda il permesso del governo dello Stato di invio di truppe in uno Stato per sedare una ribellione diretta contro le leggi degli Stati Uniti, mancando di autorità costituzionale. Nelle sue Notes on the Federal Convention, Madison riporta gli sforzi per consentire l’introduzione di truppe federali in uno Stato in tali casi senza il permesso del suo governo, i quali reiteratamente non ebbero ottenuto il necessario sostegno da una maggioranza di delegazioni statali. Prevalente invece fu la posizione del delegato Luther Martin del Maryland, il quale dichiarò che, almeno per quanto riguarda la violenza domestica interessata, «il consenso dello Stato deve precedere l’introduzione di qualsiasi e qualunque forza estranea».
In altri temi, gli autori evidenziano ciò che sembra essere necessario per raggiungere il loro grande scopo. In un capitolo intitolato The Founding Fathers of Constitutional Subversion Thomas DiLorenzo scrive che, dopo il fallimento da parte di Alexander Hamilton al congresso federale nel raggiungere il suo obiettivo di un «monopolistico governo monarchico», lui e suoi “eredi politici” come John Marshall e Joseph Story deliberatamente sovvertirono praticamente tutti i limiti del governo centrale. Nessuno potrebbe contestare che per gli standard del tempo questi uomini hanno favorito un energico governo in genere, ma non ne consegue che questi abbiano lavorato costantemente o disonestamente per minare i legittimi poteri degli Stati. Il loro “nazionalismo” fu limitato e qualificato.
Sono famose le sentenze del giudice Marshall sul potere federale, non altrettanto note sono le sue opinioni in difesa della competenza riservata agli Stati. In Gibbons v Ogden (1824), Marshall ha sottolineato che il potere del Congresso di regolare il commercio tra gli Stati non si applica «al commercio che è completamente interno, che viene effettuato tra uomo ed uomo in uno Stato o tra le diverse parti dello stesso Stato…. Il commercio interno completamente … può essere considerato come competenza riservata allo Stato stesso». Marshall ha inoltre dichiarato che la produzione non essendo parte del commercio, in nessun caso il governo federale può estendere il proprio potere commerciale a problemi di produzione o correlati alla sicurezza o alla qualità. Per Marshall queste ultime funzioni,
«formano una parte di quella massa immensa di legislazione, che abbraccia ogni cosa all’interno del territorio di uno Stato, non di competenza del governo generale: tutto quello che può essere più vantaggiosamente esercitato dagli Stati stessi. Leggi di ispezione, le leggi di quarantena, le leggi per la salute di ogni genere … sono parti costituenti di questa massa».La storia della giustizia è in netto contrasto con l’attuale maggioranza della Corte Suprema, in Prigg v Pennsylvania (1842) «il potere di polizia appartenente agli Stati, in virtù della loro sovranità generale è nel loro diritto arrestare e trattenere … e rimuovere … dai loro confini» oziosi, vagabondi, indigenti, e altri non cittadini degli Stati Uniti. Dello stesso parere la storia delle leggi statali che erano in violazione del Fugitive Slave Act costituzionalmente autorizzato dal 1793, ma che hanno aperto la porta alle future leggi sulla “libertà personale” in Pennsylvania e in altri Stati con il suggerimento che i magistrati statali non erano in grado di far rispettare la legge federale sulla fuga degli schiavi se proibito di farlo da parte della legislazione statale. Cioè, in risposta all’invito implicito sulla Prigg, diversi Stati hanno emanato leggi che servivano come una forma di nullificazione o di interposizione contro la legge federale, promuovendo la cattura degli schiavi fuggitivi.
Di Hamilton stesso, DiLorenzo scrive che:
«ha inventato il concetto di “poteri impliciti” della Costituzione, che gli ha permesso … di sostenere che la Costituzione non è una serie di limitazioni al potere governativo, come Jefferson credeva che fosse, ma piuttosto un potenziale timbro di approvazione su qualsiasi cosa il governo avesse voluto fare…».
DiLorenzo aggiunge che Hamilton «ha inventato il mito» dei poteri impliciti durante il suo dibattito con Jefferson sulla costituzionalità di una banca nazionale nel 1791.
Questo potrebbe implicare che Hamilton avesse aspettato fino a dopo che
la Costituzione fosse stata ratificata in modo da far nascere il
concetto di poteri impliciti presso un pubblico ignaro. Se non che,
Hamilton sostenne nel Federalist 33
che se la Costituzione dà al governo un potere specifico nei mezzi,
prudentemente esso è conferito ed eseguito se non esplicitamente
vietato. Hamilton si chiede: «che cosa è un potere, se non la
capacità di fare una cosa del genere? Qual è la capacità di fare una
cosa, se non il potere di impiegare i mezzi necessari per la sua
esecuzione?».
In ogni caso, c’è una notevole differenza, come Michael P. Federici sottolinea nel suo nuovo libro The Political Philosophy of Alexander Hamilton, tra il concetto di Hamilton dei poteri impliciti e quello dei progressisti che sostengono un “costituzionalismo vivente”. Come ha sostenuto Hamilton, i poteri impliciti sono legati ai loro antecedenti poteri enumerati. Al contrario, i progressisti hanno sostenuto che non solo i mezzi ma gli stessi poteri fondamentali sono flessibili e non limitati dal testo della Costituzione.
Non esplicitamente affrontato nel volume di Livingston, ma centrale per il suo tema, è il conflitto tra le due concezioni radicalmente opposte di autogoverno popolare. Un punto di vista è stato chiamato democrazia rappresentativa o costituzionale. Esso coincide con il pensiero alla base della Costituzione. Basato sul riconoscimento che l’uomo è diviso tra inclinazioni superiori e inferiori, questo approccio al governo popolare sostiene che la volontà del popolo dovrebbe riflettersi nelle politiche pubbliche non direttamente ma filtrato attraverso i processi deliberativi delle istituzioni che rappresentano gli interessi potenzialmente concorrenti e deve essere sottoposto ad ancora altre restrizioni auto-imposte. Rinviando al “senso intenzionale del popolo”, piuttosto che al parere della massa del momento, la democrazia costituzionale favorisce il consenso, rispetta le sane tradizioni e le garanzie delle minoranze dalle passioni della maggioranza. Un diverso modo di vedere è identificato con Jefferson, Thomas Paine e soprattutto Jean-Jacques Rousseau, ed è stato chiamato democrazia diretta o plebiscitaria. Sulla base di una fede nella bontà naturale dell’uomo, questa forma di governo dà alla volontà disinibita del popolo un’influenza determinante sul governo. Questo tipo di democrazia tende a ridurre gli ostacoli istituzionali alla promulgazione piena ed immediata della volontà della maggioranza.
Ironia della sorte, DiLorenzo, che è un ammiratore senza riserve di Jefferson, accusa Hamilton di condividere come Rousseau la filosofia di ispirazione giacobina che è diventata la forza trainante della rivoluzione francese. Eppure il biografo Ron Chernow ha scritto: «nessun americano è stato più profetico nel denunciare verbalmente la Rivoluzione Francese di Alexander Hamilton», invece Jefferson era un ardente sostenitore degli sforzi dei giacobini in Francia, scrivendo in una lettera del Gennaio 1793: «la libertà della terra intera dipendeva dall’esito del concorso, è mai stato un premio vinto con così poco sangue innocente? … Piuttosto del fallimento avrei visto la metà della terra desolata».
Questo libro esamina degli argomenti che non dovrebbero essere ignorati nel momento in cui le attuali formule politiche hanno smesso di funzionare. E’ vero che, secondo la Costituzione originale, la secessione e la nullificazione sono stati considerati legittimi, seppur estremi rimedi per gravi provocazioni. Quello che una volta era vero potrebbe, in teoria, diventare di nuovo realtà. Eppure il libro non riesce a spiegare perché gli americani che abitualmente accettano un governo minimo dovrebbero improvvisamente eleggere dei leaders di Stato pronti ad usare misure estreme.
Come molti conservatori, gli autori del libro sembrano pensare che i principi della Costituzione degli Stati Uniti potrebbero essere rianimati se solo più persone fossero persuasi della sua corretta interpretazione. Ma la Costituzione originale e le sue libertà presupponevano degli americani con certi tratti del carattere e certe abitudini culturali. Le pratiche morali, religiose e sociali prevalenti in America nel 1780 facevano riferimento ad una tradizione cristiana e britannica. Solo una società con quel tipo di ethos pubblico avrebbe apprezzato una Costituzione di equilibrati controlli.
Tornare alla Costituzione dei Padri Fondatori richiederebbe niente di meno che una rinascita del tipo di civiltà e carattere da cui è nata. Ciò non può essere realizzato velocemente, attraverso discorsi o decisioni politiche. Richiederebbe una protratta rigenerazione morale e culturale degli americani, una persona alla volta.
In ogni caso, c’è una notevole differenza, come Michael P. Federici sottolinea nel suo nuovo libro The Political Philosophy of Alexander Hamilton, tra il concetto di Hamilton dei poteri impliciti e quello dei progressisti che sostengono un “costituzionalismo vivente”. Come ha sostenuto Hamilton, i poteri impliciti sono legati ai loro antecedenti poteri enumerati. Al contrario, i progressisti hanno sostenuto che non solo i mezzi ma gli stessi poteri fondamentali sono flessibili e non limitati dal testo della Costituzione.
Non esplicitamente affrontato nel volume di Livingston, ma centrale per il suo tema, è il conflitto tra le due concezioni radicalmente opposte di autogoverno popolare. Un punto di vista è stato chiamato democrazia rappresentativa o costituzionale. Esso coincide con il pensiero alla base della Costituzione. Basato sul riconoscimento che l’uomo è diviso tra inclinazioni superiori e inferiori, questo approccio al governo popolare sostiene che la volontà del popolo dovrebbe riflettersi nelle politiche pubbliche non direttamente ma filtrato attraverso i processi deliberativi delle istituzioni che rappresentano gli interessi potenzialmente concorrenti e deve essere sottoposto ad ancora altre restrizioni auto-imposte. Rinviando al “senso intenzionale del popolo”, piuttosto che al parere della massa del momento, la democrazia costituzionale favorisce il consenso, rispetta le sane tradizioni e le garanzie delle minoranze dalle passioni della maggioranza. Un diverso modo di vedere è identificato con Jefferson, Thomas Paine e soprattutto Jean-Jacques Rousseau, ed è stato chiamato democrazia diretta o plebiscitaria. Sulla base di una fede nella bontà naturale dell’uomo, questa forma di governo dà alla volontà disinibita del popolo un’influenza determinante sul governo. Questo tipo di democrazia tende a ridurre gli ostacoli istituzionali alla promulgazione piena ed immediata della volontà della maggioranza.
Ironia della sorte, DiLorenzo, che è un ammiratore senza riserve di Jefferson, accusa Hamilton di condividere come Rousseau la filosofia di ispirazione giacobina che è diventata la forza trainante della rivoluzione francese. Eppure il biografo Ron Chernow ha scritto: «nessun americano è stato più profetico nel denunciare verbalmente la Rivoluzione Francese di Alexander Hamilton», invece Jefferson era un ardente sostenitore degli sforzi dei giacobini in Francia, scrivendo in una lettera del Gennaio 1793: «la libertà della terra intera dipendeva dall’esito del concorso, è mai stato un premio vinto con così poco sangue innocente? … Piuttosto del fallimento avrei visto la metà della terra desolata».
Questo libro esamina degli argomenti che non dovrebbero essere ignorati nel momento in cui le attuali formule politiche hanno smesso di funzionare. E’ vero che, secondo la Costituzione originale, la secessione e la nullificazione sono stati considerati legittimi, seppur estremi rimedi per gravi provocazioni. Quello che una volta era vero potrebbe, in teoria, diventare di nuovo realtà. Eppure il libro non riesce a spiegare perché gli americani che abitualmente accettano un governo minimo dovrebbero improvvisamente eleggere dei leaders di Stato pronti ad usare misure estreme.
Come molti conservatori, gli autori del libro sembrano pensare che i principi della Costituzione degli Stati Uniti potrebbero essere rianimati se solo più persone fossero persuasi della sua corretta interpretazione. Ma la Costituzione originale e le sue libertà presupponevano degli americani con certi tratti del carattere e certe abitudini culturali. Le pratiche morali, religiose e sociali prevalenti in America nel 1780 facevano riferimento ad una tradizione cristiana e britannica. Solo una società con quel tipo di ethos pubblico avrebbe apprezzato una Costituzione di equilibrati controlli.
Tornare alla Costituzione dei Padri Fondatori richiederebbe niente di meno che una rinascita del tipo di civiltà e carattere da cui è nata. Ciò non può essere realizzato velocemente, attraverso discorsi o decisioni politiche. Richiederebbe una protratta rigenerazione morale e culturale degli americani, una persona alla volta.
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