Il
primo colpo storico contro l’Italia lo mette a segno Carlo Azeglio
Ciampi, futuro presidente della Repubblica, incalzato dall’allora
ministro Beniamino Andreatta, maestro di Enrico Letta e “nonno” della
Grande Privatizzazione che ha smantellato l’industria statale italiana,
temutissima da Germania e Francia. E’ il 1981: Andreatta propone di
sganciare la Banca d’Italia dal Tesoro, e Ciampi esegue. Obiettivo:
impedire alla banca centrale di continuare a finanziare lo Stato, come
fanno le altre banche centrali sovrane del mondo, a cominciare da quella
inglese.
Il secondo colpo, quello del ko, arriva otto anno dopo, quando crolla il Muro di Berlino. La Germania si gioca la riunificazione, a spese della sopravvivenza dell’Italia come potenza industriale: ricattati dai francesi, per riconquistare l’Est i tedeschi accettano di rinunciare al marco e aderire all’euro, a patto che il nuovo assetto europeo elimini dalla scena il loro concorrente più pericoloso: noi. A Roma non mancano complici: pur di togliere il potere sovrano dalle mani della “casta” corrotta della Prima Repubblica, c’è chi è pronto a sacrificare l’Italia all’Europa “tedesca”, naturalmente all’insaputa degli italiani.
E’ la drammatica ricostruzione
che Nino Galloni, già docente universitario, manager pubblico e alto
dirigente di Stato, fornisce a Claudio Messora per il blog “Byoblu”.
All’epoca, nel fatidico 1989, Galloni era consulente del governo su
invito dell’eterno Giulio Andreotti, il primo statista europeo che ebbe
la prontezza di affermare di temere la riunificazione tedesca. Non era
“provincialismo storico”: Andreotti era al corrente del piano contro
l’Italia e tentò di opporvisi, fin che poté.
Poi a Roma arrivò una
telefonata del cancelliere Helmut Kohl, che si lamentò col ministro
Guido Carli: qualcuno “remava contro” il piano franco-tedesco. Galloni
si era appena scontrato con Mario Monti alla Bocconi e il suo gruppo
aveva ricevuto pressioni da Bankitalia, dalla Fondazione Agnelli e da
Confindustria. La telefonata di Kohl fu decisiva per indurre il governo a
metterlo fuori gioco. «Ottenni dal ministro la verità», racconta l’ex
super-consulente, ridottosi a comunicare con l’aiuto di pezzi di carta
perché il ministro «temeva ci fossero dei microfoni». Sul “pizzino”,
scrisse la domanda decisiva: “Ci sono state pressioni anche dalla
Germania sul ministro Carli perché io smetta di fare quello che stiamo
facendo?”. Eccome: «Lui mi fece di sì con la testa».
Questa,
riassume Galloni, è l’origine della “inspiegabile” tragedia nazionale
nella quale stiamo sprofondando. I super-poteri egemonici, prima
atlantici e poi europei, hanno sempre temuto l’Italia. Lo dimostrano due
episodi chiave. Il primo è l’omicidio di Enrico Mattei, stratega del
boom industriale italiano grazie alla leva energetica propiziata dalla
sua politica filo-araba, in competizione con le “Sette Sorelle”. E il
secondo è l’eliminazione di Aldo Moro, l’uomo del compromesso storico
col Pci di Berlinguer assassinato dalle “seconde Br”: non più
l’organizzazione eversiva fondata da Renato Curcio ma le Br di Mario
Moretti, «fortemente collegate con i servizi, con deviazioni dei
servizi, con i servizi americani e israeliani». Il leader della Dc era
nel mirino di killer molto più potenti dei neo-brigatisti: «Kissinger
gliel’aveva giurata, aveva minacciato Moro di morte poco tempo prima».
Tragico preambolo, la strana uccisione di Pier Paolo Pasolini, che nel
romanzo “Petrolio” aveva denunciato i mandanti dell’omicidio Mattei, a
lungo presentato come incidente aereo. Recenti inchieste collegano alla
morte del fondatore dell’Eni quella del giornalista siciliano Mauro De
Mauro. Probabilmente, De Mauro aveva scoperto una pista “francese”:
agenti dell’ex Oas inquadrati dalla Cia nell’organizzazione terroristica
“Stay Behind” (in Italia, “Gladio”) avrebbero sabotato l’aereo di
Mattei con l’aiuto di manovalanza mafiosa. Poi, su tutto, a congelare la
democrazia italiana avrebbe provveduto la strategia della tensione,
quella delle stragi nelle piazze.
Alla
fine degli anni ‘80, la vera partita dietro le quinte è la liquidazione
definitiva dell’Italia come competitor strategico: Ciampi, Andreatta e
De Mita, secondo Galloni, lavorano per cedere la sovranità nazionale pur
di sottrarre potere alla classe politica più corrotta d’Europa. Col
divorzio tra Bankitalia e Tesoro, per la prima volta il paese è in crisi
finanziaria: prima, infatti, era la Banca d’Italia a fare da
“prestatrice di ultima istanza” comprando titoli di Stato e, di fatto,
emettendo moneta destinata all’investimento pubblico. Chiuso il
rubinetto della lira, la situazione precipita: con l’impennarsi degli
interessi (da pagare a quel punto ai nuovi “investitori” privati) il
debito pubblico esploderà fino a superare il Pil. Non è un “problema”,
ma esattamente l’obiettivo voluto: mettere in crisi lo Stato,
disabilitando la sua funzione strategica di spesa pubblica a costo zero
per i cittadini, a favore dell’industria e dell’occupazione. Degli
investimenti pubblici da colpire, «la componente più importante era
sicuramente quella riguardante le partecipazioni statali, l’energia e i
trasporti, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale».
Al
piano anti-italiano partecipa anche la grande industria privata, a
partire dalla Fiat, che di colpo smette di investire nella produzione e
preferisce comprare titoli di Stato: da quando la Banca d’Italia non li
acquista più, i tassi sono saliti e la finanza pubblica si trasforma in
un ghiottissimo business privato. L’industria passa in secondo piano e –
da lì in poi – dovrà costare il meno possibile. «In quegli anni la
Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di
flessibilizzazione sempre più forti, che poi avrebbero prodotto la
precarizzazione». Aumentare i profitti: «Una visione poco profonda di
quello che è lo sviluppo industriale». Risultato: «Perdita di valore
delle imprese, perché le imprese acquistano valore se hanno prospettive
di profitto». Dati che parlano da soli. E spiegano tutto: «Negli anni
’80 – racconta Galloni – feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi
più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano
la stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in
attività produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice
ragione che i titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si
guadagnava di più facendo investimenti finanziari invece che facendo
investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra
deindustrializzazione».
Alla caduta del Muro, il
potenziale italiano è già duramente compromesso dal sabotaggio della
finanza pubblica, ma non tutto è perduto: il nostro paese – “promosso”
nel club del G7 – era ancora in una posizione di dominio nel panorama
manifatturiero internazionale. Eravamo ancora «qualcosa di grosso dal
punto di vista industriale e manifatturiero», ricorda Galloni:
«Bastavano alcuni interventi, bisognava riprendere degli investimenti
pubblici». E invece, si corre nella direzione opposta: con le grandi
privatizzazioni strategiche, negli anni ’90 «quasi scompare la nostra
industria a partecipazione statale», il “motore” di sviluppo tanto
temuto da tedeschi e francesi. Deindustrializzazione: «Significa che non
si fanno più politiche industriali». Galloni cita Pierluigi Bersani:
quando era ministro dell’industria «teorizzò che le strategie
industriali non servivano». Si avvicinava la fine dell’Iri, gestita da
Prodi in collaborazione col solito Andreatta e Giuliano Amato. Lo
smembramento di un colosso mondiale: Finsider-Ilva, Finmeccanica,
Fincantieri, Italstat, Stet e Telecom, Alfa Romeo, Alitalia, Sme
(alimentare), nonché la Banca Commerciale Italiana, il Banco di Roma, il
Credito Italiano.
Le banche, altro passaggio
decisivo: con la fine del “Glass-Steagall Act” nasce la “banca
universale”, cioè si consente alle banche di occuparsi di meno del
credito all’economia reale, e le si autorizza a concentrarsi sulle
attività finanziarie peculative. Denaro ricavato da denaro, con
scommesse a rischio sulla perdita. E’ il preludio al disastro planetario
di oggi. In confronto, dice Galloni, i debiti pubblici sono bruscolini:
nel caso delle perdite delle banche stiamo parlando di tre-quattromila
trilioni. Un trilione sono mille miliardi: «Grandezze stratosferiche»,
pari a 6 volte il Pil mondiale. «Sono cose spaventose». La frana è
cominciata nel 2001, con il crollo della new-economy digitale e la fuga
della finanza che l’aveva sostenuta, puntando sul boom dell’e-commerce.
Per sostenere gli investitori, le banche allora si tuffano nel
mercato-truffa dei derivati: raccolgono denaro per garantire i
rendimenti, ma senza copertura per gli ultimi sottoscrittori della
“catena di Sant’Antonio”, tenuti buoni con la storiella della “fiducia”
nell’imminente “ripresa”, sempre data per certa, ogni tre mesi, da
«centri studi, economisti, osservatori, studiosi e ricercatori, tutti
sui loro libri paga».
Quindi, aggiunge Galloni,
siamo andati avanti per anni con queste operazioni di derivazione e con
l’emissione di altri titoli tossici. Finché nel 2007 si è scoperto che
il sistema bancario era saltato: nessuna banca prestava liquidità
all’altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose, cioè speculazioni
in perdita. Per la prima volta, spiega Galloni, la massa dei valori
persi dalle banche sui mercati finanziari superava la somma che
l’economia reale – famiglie e imprese, più la stessa mafia – riusciva ad
immettere nel sistema bancario. «Di qui la crisi di liquidità, che
deriva da questo: le perdite superavano i depositi e i conti correnti».
Come sappiamo, la falla è stata provvisoriamente tamponata dalla Fed,
che dal 2008 al 2011 ha trasferito nelle banche – americane ed europee –
qualcosa come 17.000 miliardi di dollari, cioè «più del Pil americano e
più di tutto il debito pubblico americano».
Va
nella stessa direzione – liquidità per le sole banche, non per gli Stati
– il “quantitative easing” della Bce di Draghi, che ovviamente non
risolve la crisi economica perché «chi è ai vertici delle banche, e lo
abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite». Il
profitto non deriva dalle performance economiche, come sarebbe logico,
ma dal numero delle operazioni finanziarie speculative: «Questa gente si
porta a casa i 50, i 60 milioni di dollari e di euro, scompare nei
paradisi fiscali e poi le banche possono andare a ramengo». Non
falliscono solo perché poi le banche centrali, controllate dalle stesse
banche-canaglia, le riforniscono di nuova liquidità. A monte: a soffrire
è l’intero sistema-Italia, da quando – nel lontano 1981 – la finanzia
pubblica è stata “disabilitata” col divorzio tra Tesoro e Bankitalia. Un
percorso suicida, completato in modo disastroso dalla tragedia finale
dell’ingresso nell’Eurozona, che toglie allo Stato la moneta ma anche il
potere sovrano della spesa pubblica, attraverso dispositivi come il
Fiscal Compact e il pareggio di bilancio.
Per
l’Europa “lacrime e sangue”, il risanamento dei conti pubblici viene
prima dello sviluppo. «Questa strada si sa che è impossibile, perché tu
non puoi fare il pareggio di bilancio o perseguire obiettivi ancora più
ambiziosi se non c’è la ripresa». E in piena recessione, ridurre la
spesa pubblica significa solo arrivare alla depressione irreversibile.
Vie d’uscita? Archiviare subito gli specialisti del disastro – da Angela
Merkel a Mario Monti – ribaltando la politica europea: bisogna tornare
alla sovranità monetaria, dice Galloni, e cancellare il debito pubblico
come problema. Basta puntare sulla ricchezza nazionale, che vale 10
volte il Pil. Non è vero che non riusciremmo a ripagarlo, il debito. Il
problema è che il debito, semplicemente, non va ripagato: «L’importante è
ridurre i tassi di interesse», che devono essere «più bassi dei tassi
di crescita». A quel punto, il debito non è più un problema: «Questo è
il modo sano di affrontare il tema del debito pubblico». A meno che,
ovviamente, non si proceda come in Grecia, dove «per 300 miseri miliardi
di euro» se ne sono persi 3.000 nelle Borse europee, gettando sul
lastrico il popolo greco.
Domanda: «Questa gente
si rende conto che agisce non solo contro la Grecia ma anche contro gli
altri popoli e paesi europei? Chi comanda effettivamente in questa
Europa se ne rende conto?». Oppure, conclude Galloni, vogliono davvero
«raggiungere una sorta di asservimento dei popoli, di perdita ulteriore
di sovranità degli Stati» per obiettivi inconfessabili, come avvenuto in
Italia: privatizzazioni a prezzi stracciati, depredazione del
patrimonio nazionale, conquista di guadagni senza lavoro. Un piano
criminale: il grande complotto dell’élite mondiale. «Bilderberg,
Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10, gli “Illuminati di Baviera”: sono
tutte cose vere», ammette l’ex consulente di Andreotti. «Gente che si
riunisce, come certi club massonici, e decide delle cose». Ma il
problema vero è che «non trovano resistenza da parte degli Stati».
L’obiettivo è sempre lo stesso: «Togliere di mezzo gli Stati nazionali
allo scopo di poter aumentare il potere di tutto ciò che è
sovranazionale, multinazionale e internazionale». Gli Stati sono stati
indeboliti e poi addirittura infiltrati, con la penetrazione nei governi
da parte dei super-lobbysti, dal Bilderberg agli “Illuminati”. «Negli
Usa c’era la “Confraternita dei Teschi”, di cui facevano parte i Bush,
padre e figlio, che sono diventati presidenti degli Stati Uniti: è
chiaro che, dopo, questa gente risponde a questi gruppi che li hanno
agevolati nella loro ascesa».
Non abbiamo amici.
L’America avrebbe inutilmente cercato nell’Italia una sponda forte dopo
la caduta del Muro, prima di dare via libera (con Clinton) allo
strapotere di Wall Street. Dall’omicidio di Kennedy, secondo Galloni,
gli Usa «sono sempre più risultati preda dei britannici», che hanno
interesse «ad aumentare i conflitti, il disordine», mentre la componente
“ambientalista”, più vicina alla Corona, punta «a una riduzione
drastica della popolazione del pianeta» e quindi ostacola lo sviluppo,
di cui l’Italia è stata una straordinaria protagonista. L’odiata
Germania? Non diventerà mai leader, aggiunge Galloni, se non accetterà
di importare più di quanto esporta. Unico futuro possibile: la Cina, ora
che Pechino ha ribaltato il suo orizzonte, preferendo il mercato
interno a quello dell’export. L’Italia potrebbe cedere ai cinesi interi
settori della propria manifattura, puntando ad affermare il made in
Italy d’eccellenza in quel mercato, 60 volte più grande. Armi
strategiche potenziali: il settore della green economy e quello della
trasformazione dei rifiuti, grazie a brevetti di peso mondiale come
quelli detenuti da Ansaldo e Italgas.
Prima,
però, bisogna mandare a casa i sicari dell’Italia – da Monti alla Merkel
– e rivoluzionare l’Europa, tornando alla necessaria sovranità
monetaria. Senza dimenticare che le controriforme suicide di stampo
neoliberista che hanno azzoppato il paese sono state subite in silenzio
anche dalle organizzazioni sindacali. Meno moneta circolante e salari
più bassi per contenere l’inflazione? Falso: gli Usa hanno appena creato
trilioni di dollari dal nulla, senza generare spinte inflattive.
Eppure, anche i sindacati sono stati attratti «in un’area di consenso
per quelle riforme sbagliate che si sono fatte a partire dal 1981».
Passo fondamentale, da attuare subito: una riforma della finanza,
pubblica e privata, che torni a sostenere l’economia. Stop al dominio
antidemocratico di Bruxelles, funzionale solo alle multinazionali
globalizzate. Attenzione: la scelta della Cina di puntare sul mercato
interno può essere l’inizio della fine della globalizzazione, che è «il
sistema che premia il produttore peggiore, quello che paga di meno il
lavoro, quello che fa lavorare i bambini, quello che non rispetta
l’ambiente né la salute». E naturalmente, prima di tutto serve il
ritorno in campo, immediato, della vittima numero uno: lo Stato
democratico sovrano. Imperativo categorico: sovranità finanziaria per
sostenere la spesa pubblica, senza la quale il paese muore. «A me
interessa che ci siano spese in disavanzo – insiste Galloni – perché se
c’è crisi, se c’è disoccupazione, puntare al pareggio di bilancio è un
crimine».
Fonte: Libre 2 Maggio 2013
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