mercoledì 22 maggio 2013

MELOPOLIS

Nell’Era del Tempo Sospeso c’era una Città-Mondo chiamata Melopolis.
Si diceva che fosse estremamente moderna e molto avanzata tecnologicamente. Di questo perlomeno erano pienamente convinti i suoi abitanti.
Si diceva anche che fosse molto antica, ma i cittadini stessi di Melopolis non sapevano dire quanto, se interrogati su questo punto.


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La città era di forma circolare, con una altura al centro sulla quale vi era un immenso palazzo. Tutt’intorno al perimetro urbano, cinto da poderose mura costruite con una misteriosa pietra di colore nero profondo, che pareva un vetro vulcanico, si stendeva a perdita d’occhio il Frutteto.
Nel Frutteto veniva coltivata un’unica varietà di frutta, una mela di colore rosso.
Di questo, e solo di questo, si cibavano i Melopolitani. L’unico alimento conosciuto dai miliardi di esseri umani che vivevano a Melopolis.
Se ne cibavano consumandolo crudo la mattina a colazione, sbollentato e tagliato a fettine nell’intervallo del pranzo e cucinato lungamente in padella, lasciando che la polpa si caramellasse, in raffinati piatti per la cena a tarda sera, dopo una interminabile giornata di lavoro.
La mela rossa era da tempo immemorabile l’unico cibo, l’unica cosa commestibile conosciuta a Melopolis. Forse il nome stesso della città aveva tratto origine da questa usanza.


Le derrate di mele rosse, che venivano coltivate nel Frutteto, quella distesa coltivata a vista d’occhio che gli abitanti potevano ammirare sporgendosi dalle mura nere di Melopolis nei rari momenti di pausa dal loro lavoro, arrivavano in città attraverso un sofisticato sistema di levitazione che veniva gestito dall’interno del palazzo che si ergeva sul colle nel centro della città.
Quando le mele erano mature – e questo avveniva durante tutto l’arco dell’anno, poiché non vi erano stagioni a Melopolis – si staccavano dal ramo della pianta su cui erano cresciute e, anziché cadere a terra, si alzavano in cielo, descrivevano una lunghissima traiettoria ad arco e ricadevano dolcemente, fluttuando nell’aria, all’interno del perimetro urbano, in modo che i Melopolitani potessero prenderle liberamente una volta che fossero ad altezza d’uomo.
Il cibo quindi non costava nulla a Melopolis, e tutti potevano prenderne quanto ne volevano. Si diceva che nell’antichità, quando il sistema delle mele levitanti venne introdotto, c’era chi ne aveva fatto incetta e se n’era cibato fino a diventare pingue, alcuni addirittura fino a morirne.
Ma col tempo tutto si era equilibrato ed ora, chi abitava a Melopolis, aveva raggiunto un perfetto equilibrio tra desiderio e soddisfazione, mangiava istintivamente la giusta, fisiologica quantità di mele per la sua costituzione fisica, lo faceva gratuitamente, prelevandole quando, nella loro discesa fluttuante dai territori del Frutteto, esse si trovavano ad altezza d’uomo, cosicché semplicemente allungando la mano poteva impossessarsene e farne consumo.
In questo modo, tanto tecnologico quanto geniale, era stato risolto una volta per tutte nella città-mondo di Melopolis il millenario problema della fame. Ogni cittadino aveva il fabbisogno alimentare quotidiano perfetto, senza dover fare alcuna fatica.
Un impianto sofisticatissimo e segreto, per evitare che una così delicata funzione dello Stato cadesse sotto il controllo di malintenzionati, stava protetto nei sotterranei dell’immenso palazzo al centro della città. Attraverso di esso, in modo centralizzato, veniva modificata tramite i principi della tecnologia al plasma la gravità di ogni singola mela che nel Frutteto circostante la città giungeva a maturazione, cosicché essa, anziché cadere a terra e perdersi, saliva al cielo per ricadere lentamente nel perimetro urbano.
Ma la cosa più stupefacente era che per un meccanismo misterioso dei cui nessuno capiva il funzionamento, ogni giorno giungeva a maturazione solo il numero di mele occorrente al fabbisogno quotidiano degli abitanti. Non una mela in più, non una in meno. Un ecosistema perfetto, frutto della armoniosa integrazione tra natura e tecnologia.
Più della metà degli abitanti di Melopolis lavoravano a Palazzo, o meglio eseguivano gli ordini che dal Palazzo provenivano direttamente, ed abitavano intorno alla costruzione centrale, dentro la quale però essi stessi non erano mai entrati. Essi venivano chiamati “Clerici”. Si riconoscevano tra gli altri perché indossavano un abito scuro, lungo fino alle caviglie, di colore simile alla buccia della melanzana e dotato sul davanti di una cerniera d’oro, chiusa alla base del collo da un lucchetto, anch’esso d’oro, sul quale in un intricato disegno di diamanti incastonati era ben visibile la “m” stilizzata simbolo del governo della città, di cui ogni Clerico era funzionario.
I Clerici rappresentavano la manifestazione visibile del governo di Melopolis. Ossia quella visibile al resto degli abitanti. Perché nessun Melopolitano comune aveva potuto mai vedere di persona alcun membro del Consiglio dei Tre Cento. Ne avevano sentito parlare, ma non sapevano neppure quale aspetto fisico avessero.
Li avevano anche visti in Telepresenza, il network unico generale che diffondeva i notiziari attraverso apparati olografici che proiettavano repliche di fatti salienti nei Telesites, gli spazi della città destinati alla comunicazione.
Melopolis era costellata di Telesites pubblici, ce n’era uno ad ogni incrocio stradale, almeno quattro ogni piazza e non c’era angolo di centro commerciale che ne fosse privo. Poi in ogni casa, al centro del soggiorno c’era il Family Telesite, che veniva costruito insieme all’abitazione, costituendone parte integrante.
Quando qualcuno del governo appariva in Telesite, soprattutto durante gli eventi in Melovision, che venivano trasmessi su ogni singolo Telesite, pubblico e privato, era come se centinaia di milioni di repliche vive della stessa persona agissero all’unisono nella realtà, con un impatto persuasivo schiacciante, che non dava adito a repliche.
Poiché ciò che appariva, inquadrato dalle telecamere oleografiche all’interno del Palazzo e proiettato dagli olografi dei Telesites, era la forma di un individuo umano, più alto della media, vestito con una lunga veste bianca con una cerniera di diamanti sul lato anteriore, ed on volto irradiante una luce così intensa da creare l’effetto visivo di un alone sferico accecante che di fatto nascondeva le fattezze del componente del Consiglio dal petto in su.
Una voce suadente di baritono, che parlava sempre con una calma accogliente e sicura, descriveva i provvedimenti deliberati quel giorno dal Consiglio al fine di migliorare la già avanzata e civile vita cittadina, ed ogni ascoltatore, in casa o per strada, non poteva che sentire un profondo moto di orgoglio per essere parte di quel mondo così perfetto.
Quando questi solenni comunicati venivano diramati, la scena in prossimità dei Telesites pubblici era la stessa in tutta Melopolis: grandi capannelli di persone si fermavano attorno all’emittente olografica, interrompendo le loro attività quotidiane e assistevano rapiti alla trasmissione. Alcuni nel frattempo sgranocchiavano le mele che, fluttuando, si erano abbassate fino a poter essere raggiunte allungando il braccio, proprio intorno agli spiazzi dei Telesites.
E alla fine della trasmissione un sentimento di profonda appartenenza e totale gratitudine pervadeva gli animi dei Melopolitani, che in quel momento sentivano di essere parte di un progetto veramente grande, espressione di quanto di meglio il genere umano potesse concepire nella creazione di un mondo sempre migliore.
Quando sgranocchiavano le mele, la polpa era di un colore bruno striato di verde, di consistenza mista, parte acquosa e parte farinosa, ma nelle trasmissioni quotidiane dei Telesites i delegati del Consiglio avevano mille e mille volte assicurato, mostrando incontrovertibili evidenze scientifiche, che quella era la consistenza perfetta del cibo.
I Melopolitani non potevano immaginare nulla di meglio per i loro pasti giornalieri, ed anche quel forte sapore acidulo di cui ormai tutti andavano pazzi, e che nelle prime versioni delle mele, ancora anni fa, rappresentava l’avanguardia nella ricerca sul Gusto.
Tutto procedeva per il meglio, a Melopolis. I tecnici specializzati, incaricati dal Consiglio, avevano fatto uno splendido lavoro nel collegare, poco per volta, senza che nessuno si accorgesse, i condotti fognari della città all’impianto di irrigazione del Frutteto.
E così ora si era creato finalmente, dopo secoli di lavoro incessante quanto invisibile nella città di Melopolis, il Moto Perpetuo dei Fluidi.
Ma un giorno gli abitanti si svegliarono e non trovarono neppure una mela sospesa nell’aria.
All’inizio erano increduli: possibile che in un mondo così perfetto e inimitabile qualcosa non funzionava?
L’incredulità con il passare delle ore divenne sgomento, poi angoscia e disorientamento totale.
Ma come? Nessuno lassù al Consiglio si era accorto di nulla, loro che da sempre avevano dimostrato di saper badare ad ogni più piccolo bisogno della popolazione con precisione cronometrica?
Si interrogarono sul da farsi, si riunirono in gruppi, presero coraggio e, benché privi della razione mattutina delle preziose sostanze nutrienti delle mele, si inerpicarono verso il Palazzo del Consiglio.
Mai nessuno di loro aveva varcato la soglia del Palazzo. Anche andando indietro nel tempo, ai racconti dei padri e dei padri dei padri, nessuno dei Melopolitani era mai stato a visitare l’interno di quella immensa costruzione. Vi erano sì dei portoni, alti più di trenta metri, che erano sempre stati chiusi, tanto che alcuni pensavano ormai che fossero un semplice retaggio stilistico dell’epoca passata in cui i palazzi avevano portoni, ma che ora non vi era più necessità alcuna perché vi fosse contatto diretto tra il Consiglio e la popolazione.
I membri del Consiglio dovevano essere lasciati tranquilli nella loro fondamentale attività di direzione e controllo, e gli abitanti erano ben consci che anche una loro semplice domanda diretta poteva turbare la concentrazione di quelle menti raffinate, e poteva così nascere qualche problema, potenzialmente molto grave.
Per cui ormai tutti erano d’accordo a Melopolis sul fatto che tra Consiglio e popolazione non ci dovevano essere contatti diretti.
Ogni abitante si era così fatto una idea sua di come fossero di persona i membri del Consiglio, così come poteva capire dalle trasmissioni dei Telesites.
Se li immaginava alti, bellissimi, magri e con capelli lunghi e barba candidi, lisci e lucenti. Alteri ed imperturbabili, di poche parole ma suadenti e commiserevoli.
Ma quello che videro i gruppi di abitanti che si erano raccolti nelle varie zone della città e avevano preso a percorrere le strade che salivano ai portoni del Palazzo, fu qualcosa di nettamente diverso, che fece loro venire le vertigini: d’un tratto il mondo in cui avevano sempre vissuto, in cui credevano ciecamente, quello che sapevano essere l’unica opzione possibile verso la perfezione, si mostrava per qualcosa che non sapevano neppure esistesse, e ciò faceva crollare il Palazzo Interiore che si erano creati, un edificio di conoscenza e regole che appariva loro indispensabile, insostituibile per comprendere ed affrontare la loro esistenza al mondo, ogni giorno che il sole illuminava.
Gli immensi portoni erano aperti, mostrando di quale possanza, spessore e peso erano dotati, che tuttavia erano stati violati da qualcosa di sconosciuto, che aveva strappato la maggior parte di essi ai cardini.
Dagli archi aperti verso l’interno lo spettacolo aveva un fascino straniante: cumuli di corpi deformi, grinzuti e ributtanti, vestiti da abiti neri con i bordi di platino, e adorni di fiocchi, cordoni e simboli sconosciuti, stavano sul selciato che pareva di ossidiana.
Erano senza vita, le membra divelte da una violenta lotta che pareva essersi svolta in seno al loro stesso gruppo: molti di loro stavano riversi sugli altri con le fauci immerse nelle gole, l’un con l’altro, mentre else di preziosi pugnali sporgevano da dietro alle scapole degli assalitori.
Echi di grida e di pazzia giungevano dell’interno della cittadella fortificata che si rendevano ora conto essere il Palazzo: con residenze, uffici e dipartimenti edificati con un lusso che aveva letteralmente del disumano.
Mai potevano credere che vi fossero persone, per quanto importanti ed indispensabili, abituate a vivere in una così smaccata esuberanza di ricchezza.
Ma quello che stupì più di ogni altra cosa gli abitanti di Melopolis fu il trovare nei giardini del Palazzo piante lussureggianti con una infinità di specie diverse di frutta e di verdura, che loro non avevano mai visto e di cui non immaginavano neppure lontanamente l’esistenza stessa.
Stavano là, coperte di una invitante rugiada, perfetti nelle loro forme attraenti, all’interno di aiuole cintate da balaustre d’oro massiccio, finemente cesellate.
Li assaggiarono, staccandoli dalle piante con delicatezza. Il loro sapore era inebriante, capace di risvegliare i sensi e i ricordi di mille vite passate.
Ma le grida e l’atmosfera di disordine e pazzia li attraevano verso la sommità della cittadella, dove le ville si facevano ancora più grandi e lussuose.
Lungo le strade radiali che provenivano dai portoni del Palazzo grandi gruppi di abitanti risalivano ora verso il centro, dove una misteriosa costruzione, che appariva totalmente diversa rispetto a ciò che vedevano loro dalla zona riservata ai cittadini.
Il centro del palazzo – e quindi anche della città – era una immensa sfera, che sembrava fatta di un unico pezzo di cristallo dalla superficie a specchio, che rifletteva il mondo circostante in tutto e per tutto, senza mostrare alcunché del suo interno.
Alla base della sfera, tutt’intorno in corrispondenza di ogni strada radiale un lungo petalo d’oro massiccio, pesante centinaia di tonnellate ne copriva e proteggeva l’ingresso, recando una scritta in una lingua che da lungo tempo non si usava nella cultura comune.
“Vectium Potestatis” queste erano le parole nella lingua sconosciuta ai più, che stavano scritte con intarsi di diamanti grossi come uova alla sommità di ogni entrata.
Una esclamazione giunse dalle retrovie di un gruppo e rimbalzò di eco in eco alle orecchie di ogni abitante che saliva verso le porte della sfera: “Le Leve del Potere!” Quella è la sala delle Leve del Potere! Da lì ci hanno governato finora!
Una curiosità mista a sbigottimento si impossessò degli abitanti, che ora volevano conoscere la verità.
“Entriamo, presto!”
E da ognuna delle strade radiali, migliaia di abitanti di Melopolis entrarono minacciosi nella sala delle Leve del Potere.
Quello che videro era un mondo a sé.
Un mondo astratto, privo di un tempo e di uno spazio, e composto solo da informazioni dell’”Esterno”.
Non c’era alcuna identità, lì dentro, ma solo la risultanza di quello che stava fuori.
Un “Buco Nero” sconfinato, in cui stavano sospesi nel vuoto decine di enormi aghi di diamante, incernierati uno all’altro con giunti di materiale gassoso, che alcuni esseri dalle vesti violacee perlescenti movimentavano, pronunciando con voci tonanti sequenze di numeri.
Ma l’impressione straniante era quella di una macchina perfetta che non produceva alcun effetto.
Si muoveva scompostamente senza che in ciò che stava fuori il movimento cambiasse corrispondentemente. Una perfetta macchina insensata.
Qualcuno era riuscito a disconnettere il centro invisibile dal mondo esterno. Cosìcché la funzione di quel centro risultava ormai invisibile anche per il centro stesso.
Nel momento in cui il popolo realizzò questo, in quell’esatto istante tutto scoppiò all’improvviso in miliardi di minuti frantumi, l’involucro stesso della sala si polverizzò come sabbia rilucente, e il mondo intero autentico irruppe nella realtà.
In quel momento l’io si svegliò dal sonno, e potè vedere il mondo con gli occhi del mondo stesso.
Le divisioni erano cessate, così i confini, così le menzogne.
L’Essenza Assoluta aveva preso ad essere, ed ora finalmente È.
 http://www.iconicon.it/blog/2013/05/melopolis/
Jervé

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