di Luigi Manconi
“E’ così virtuoso che per lui la vita stessa è un vizio” (Georg Büchner)
Palesemente, a Marco Travaglio je rode. Quando mi capita di scrivere di lui, qualche amico caro eccepisce: quello non ti si fila nemmeno. Anch’io pensavo così, all’inizio, ma ho dovuto ricredermi: quello mi si fila, eccome se mi si fila, e replica rintuzza respinge recrimina. Come un forsennato.
E la sola spiegazione è quella appena detta: je rode proprio. Aiutato da acribiosi esegeti, sono arrivato a concludere che quanto segue è ciò che Travaglio proprio non sopporta.
1. La critica di essere un amorale (e, talvolta, un immorale), truccato da moralista. Il moralismo, si sa, può avere una sua funzione virtuosa, ma solo fino a quando è espressione di una concezione tragica dell’esistenza, segnata da un profondo pessimismo sulla natura dell’uomo e sulla sua vocazione al male. Che alla radice vi sia il peccato originale o l’identità antropologica, è la fallibilità dell’individuo e la sua vulnerabilità alle tentazioni del mondo a costituire la sostanza “umana, troppo umana” della persona. In Travaglio nulla di tutto ciò: il suo occhio che osserva è, piuttosto, la coda con cui l’Inquisitore si fa Giudicante e sentenzia “quantunque gradi vuol che giù sia messa” (l’anima colpevole). A quel punto il moralista già si è fatto immorale, perché si presuppone irriducibilmente estraneo alla fragilità umana e al di sopra di essa. Egli è il titolare del Bene e, non conoscendo il conflitto tra questo Bene e il Male, esercita una mera funzione giudiziaria e finisce col non vivere alcuna vita morale.
2. La critica di scrivere male, malissimo. La scrittura di Travaglio è, alla lettera, questurina. E non perché la sua fonte principale sono i verbali di polizia, gli interrogatori e le intercettazioni. Piuttosto, la sua è una scrittura giudiziaria nel senso sopra detto: perché è, appunto, quella di un moralista che fatalmente diventa immorale, dal momento che non conosce le lacerazioni della vita reale, bensì solo i codici che vorrebbero imprigionarla. Ne discende inevitabilmente un vocabolario povero e sciatto, ordinario e cupo e una prosa ferrigna e claustrofobica. Per accenderla, Travaglio è costretto a ricorrere, come i piccini, all’esplosione di miccette: “Coglioni” e “dementi” e così via, spensieratamente.
3. La critica di far ridere poco, pochissimo. Da un sessantennio, il linguaggio comico italiano si divide in due canoni principali: a) il Raccontatore di barzellette; b) il Deformatore di cognomi. Al primo canone appartengono Walter Chiari (il più grande), Carlo Dapporto e Gino Bramieri. Di questo filone Silvio Berlusconi rappresenta l’epigone compulsivo e malinconico. Al secondo, vuole la leggenda che appartenesse Palmiro Togliatti (ma, come direbbe un passatista, allora ci si divertiva con poco): e tutti – confessiamolo – ne siamo stati partecipi e vittime (figuriamoci uno il cui cognome termina in oni). Poi, si diventa più o meno adulti. Il puer aeternus Travaglio no. Scrive: Al Fano, e c’è chi si scompiscia dal ridere.
4. La critica di essere gerontofobo. Glielo ha rimproverato anche Michele Santoro, ma lui nega e dice di “adorare gli anziani” e tuttavia di volerli pensionare. Il problema (suo) è che l’insofferenza verso i vecchi è ricorrente e sembra dovuta all’avanzare dell’età (sua). Travaglio ha cinquant’anni e, palesemente, non li vive bene. Stavo per aggiungere: e perde vistosamente i capelli. Ma chi scrive, quanto a handicap, sta molto peggio, e, dunque non accennerò alla sua “fronte inutilmente spaziosa” (Fortebraccio).
5. La critica di essere speculare a Berlusconi. Travaglio si picca di esserne un acerrimo avversario. Ma, per dubitarne, basta aver visto il confronto tra i due nel corso di “Servizio Pubblico”. Spiace ripetersi, ma quella parola sporcacciona (inciucio) che gonfia indecentemente le gote di Travaglio quando parla di “larghe intese”, definisce magnificamente la simbiosi perfetta tra Berlusconi e Travaglio: stessa accidia morale (ilare nel primo, tetra nel secondo), il medesimo sospetto per la complessità del pensiero, l’analoga insofferenza verso le contraddizioni e le aporie dell’esistenza.
6. La critica di essere il lupo che accusa l’agnello. Domenica scorsa, Travaglio ha scritto un fondo che, più che un articolo, è una cartella clinica: l’uomo è palesemente provato. E reagisce rabbiosamente (“topi di fogna”) verso chi ha utilizzato il metodo Travaglio contro Travaglio, a proposito di un certo “traffico d’influenza” gestito dallo stesso Travaglio. Mi indigno anch’io: come non vedere, dietro tutto ciò, lo zampino di Berlusconi che, al solito, la butta in caciara per affossare la legge anti corruzione (che prevede, appunto il “traffico d’influenza”)? Ma questa vicenda è sommamente istruttiva. Nel denunciare il suo immotivato coinvolgimento in una storia di hackeraggio, Travaglio ricorre a tutti (ma proprio tutti) gli elementi linguistici e drammaturgici e quelli mitico-paranoici, che alimentano le sue leggende criminali. Non c’è termine, dettaglio o circostanza da lui utilizzata nella indefessa attività di character assassination e di edificazione di complotti, che oggi egli non attribuisca ai due giornalisti che, in questa circostanza, hanno scritto di lui.
7. La critica secondo la quale nessuno “gli vuole bene”. Altroché, se mi vogliono bene, replica Travaglio: “Se Manconi si informasse, potrebbe avere brutte delusioni”. Ditemi voi se una risposta del genere non segnali una grave forma di stress psicofisico. Ma se, il “voler bene” viene considerato nell’unico significato che qui interessa (quello pubblico-politico) risulta eloquente che nelle Quirinarie, e in altre simili competizioni, Travaglio finisca ultimo (mentre Emma Bonino, da lui costantemente insolentita, gli fa ciao dalle primissime posizioni). Probabilmente, a Travaglio sfugge che, più che “volergli bene”, molti lo temono: come negli anni Settanta molti temevano il “Candido” di Giorgio Pisanò, del quale Travaglio riproduce puntualmente gli stilemi satirici.
8. La critica che il suo furore contro il Pd sia così “di destra” da impedirgli di denunciare iniquità grandi e piccole. Travaglio replica richiamando centinaia di articoli sul Fatto. Ma io ho parlato di lui, non del Fatto. Che è altra cosa. Antonio Padellaro scrive cose che non condivido, ma è un analista acuto. Furio Colombo è un uomo di passioni e contraddizioni, ma libero. Paolo Flores, maleducatissimo nelle relazioni personali, è tuttavia persona colta e coerente. Travaglio è una perfetta manifestazione del narcisismo nell’epoca della “rottura degli specchi”.
P.s. Ora però basta. Deve smetterla, Travaglio, di importunarmi, di inviarmi sms e mail e di insistere: “Parliamone”. Parliamo, ma di che? Non posso più perdere tempo e devo dedicarmi allo studio dell’ocarina. Se ci riprova, chiamo i carabinieri. Sono di sinistra e, tuttavia, uomo d’ordine.
“E’ così virtuoso che per lui la vita stessa è un vizio” (Georg Büchner)
Palesemente, a Marco Travaglio je rode. Quando mi capita di scrivere di lui, qualche amico caro eccepisce: quello non ti si fila nemmeno. Anch’io pensavo così, all’inizio, ma ho dovuto ricredermi: quello mi si fila, eccome se mi si fila, e replica rintuzza respinge recrimina. Come un forsennato.
E la sola spiegazione è quella appena detta: je rode proprio. Aiutato da acribiosi esegeti, sono arrivato a concludere che quanto segue è ciò che Travaglio proprio non sopporta.
1. La critica di essere un amorale (e, talvolta, un immorale), truccato da moralista. Il moralismo, si sa, può avere una sua funzione virtuosa, ma solo fino a quando è espressione di una concezione tragica dell’esistenza, segnata da un profondo pessimismo sulla natura dell’uomo e sulla sua vocazione al male. Che alla radice vi sia il peccato originale o l’identità antropologica, è la fallibilità dell’individuo e la sua vulnerabilità alle tentazioni del mondo a costituire la sostanza “umana, troppo umana” della persona. In Travaglio nulla di tutto ciò: il suo occhio che osserva è, piuttosto, la coda con cui l’Inquisitore si fa Giudicante e sentenzia “quantunque gradi vuol che giù sia messa” (l’anima colpevole). A quel punto il moralista già si è fatto immorale, perché si presuppone irriducibilmente estraneo alla fragilità umana e al di sopra di essa. Egli è il titolare del Bene e, non conoscendo il conflitto tra questo Bene e il Male, esercita una mera funzione giudiziaria e finisce col non vivere alcuna vita morale.
2. La critica di scrivere male, malissimo. La scrittura di Travaglio è, alla lettera, questurina. E non perché la sua fonte principale sono i verbali di polizia, gli interrogatori e le intercettazioni. Piuttosto, la sua è una scrittura giudiziaria nel senso sopra detto: perché è, appunto, quella di un moralista che fatalmente diventa immorale, dal momento che non conosce le lacerazioni della vita reale, bensì solo i codici che vorrebbero imprigionarla. Ne discende inevitabilmente un vocabolario povero e sciatto, ordinario e cupo e una prosa ferrigna e claustrofobica. Per accenderla, Travaglio è costretto a ricorrere, come i piccini, all’esplosione di miccette: “Coglioni” e “dementi” e così via, spensieratamente.
3. La critica di far ridere poco, pochissimo. Da un sessantennio, il linguaggio comico italiano si divide in due canoni principali: a) il Raccontatore di barzellette; b) il Deformatore di cognomi. Al primo canone appartengono Walter Chiari (il più grande), Carlo Dapporto e Gino Bramieri. Di questo filone Silvio Berlusconi rappresenta l’epigone compulsivo e malinconico. Al secondo, vuole la leggenda che appartenesse Palmiro Togliatti (ma, come direbbe un passatista, allora ci si divertiva con poco): e tutti – confessiamolo – ne siamo stati partecipi e vittime (figuriamoci uno il cui cognome termina in oni). Poi, si diventa più o meno adulti. Il puer aeternus Travaglio no. Scrive: Al Fano, e c’è chi si scompiscia dal ridere.
4. La critica di essere gerontofobo. Glielo ha rimproverato anche Michele Santoro, ma lui nega e dice di “adorare gli anziani” e tuttavia di volerli pensionare. Il problema (suo) è che l’insofferenza verso i vecchi è ricorrente e sembra dovuta all’avanzare dell’età (sua). Travaglio ha cinquant’anni e, palesemente, non li vive bene. Stavo per aggiungere: e perde vistosamente i capelli. Ma chi scrive, quanto a handicap, sta molto peggio, e, dunque non accennerò alla sua “fronte inutilmente spaziosa” (Fortebraccio).
5. La critica di essere speculare a Berlusconi. Travaglio si picca di esserne un acerrimo avversario. Ma, per dubitarne, basta aver visto il confronto tra i due nel corso di “Servizio Pubblico”. Spiace ripetersi, ma quella parola sporcacciona (inciucio) che gonfia indecentemente le gote di Travaglio quando parla di “larghe intese”, definisce magnificamente la simbiosi perfetta tra Berlusconi e Travaglio: stessa accidia morale (ilare nel primo, tetra nel secondo), il medesimo sospetto per la complessità del pensiero, l’analoga insofferenza verso le contraddizioni e le aporie dell’esistenza.
6. La critica di essere il lupo che accusa l’agnello. Domenica scorsa, Travaglio ha scritto un fondo che, più che un articolo, è una cartella clinica: l’uomo è palesemente provato. E reagisce rabbiosamente (“topi di fogna”) verso chi ha utilizzato il metodo Travaglio contro Travaglio, a proposito di un certo “traffico d’influenza” gestito dallo stesso Travaglio. Mi indigno anch’io: come non vedere, dietro tutto ciò, lo zampino di Berlusconi che, al solito, la butta in caciara per affossare la legge anti corruzione (che prevede, appunto il “traffico d’influenza”)? Ma questa vicenda è sommamente istruttiva. Nel denunciare il suo immotivato coinvolgimento in una storia di hackeraggio, Travaglio ricorre a tutti (ma proprio tutti) gli elementi linguistici e drammaturgici e quelli mitico-paranoici, che alimentano le sue leggende criminali. Non c’è termine, dettaglio o circostanza da lui utilizzata nella indefessa attività di character assassination e di edificazione di complotti, che oggi egli non attribuisca ai due giornalisti che, in questa circostanza, hanno scritto di lui.
7. La critica secondo la quale nessuno “gli vuole bene”. Altroché, se mi vogliono bene, replica Travaglio: “Se Manconi si informasse, potrebbe avere brutte delusioni”. Ditemi voi se una risposta del genere non segnali una grave forma di stress psicofisico. Ma se, il “voler bene” viene considerato nell’unico significato che qui interessa (quello pubblico-politico) risulta eloquente che nelle Quirinarie, e in altre simili competizioni, Travaglio finisca ultimo (mentre Emma Bonino, da lui costantemente insolentita, gli fa ciao dalle primissime posizioni). Probabilmente, a Travaglio sfugge che, più che “volergli bene”, molti lo temono: come negli anni Settanta molti temevano il “Candido” di Giorgio Pisanò, del quale Travaglio riproduce puntualmente gli stilemi satirici.
8. La critica che il suo furore contro il Pd sia così “di destra” da impedirgli di denunciare iniquità grandi e piccole. Travaglio replica richiamando centinaia di articoli sul Fatto. Ma io ho parlato di lui, non del Fatto. Che è altra cosa. Antonio Padellaro scrive cose che non condivido, ma è un analista acuto. Furio Colombo è un uomo di passioni e contraddizioni, ma libero. Paolo Flores, maleducatissimo nelle relazioni personali, è tuttavia persona colta e coerente. Travaglio è una perfetta manifestazione del narcisismo nell’epoca della “rottura degli specchi”.
P.s. Ora però basta. Deve smetterla, Travaglio, di importunarmi, di inviarmi sms e mail e di insistere: “Parliamone”. Parliamo, ma di che? Non posso più perdere tempo e devo dedicarmi allo studio dell’ocarina. Se ci riprova, chiamo i carabinieri. Sono di sinistra e, tuttavia, uomo d’ordine.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
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