Il giorno prima di morire, Aldo Moro era a un passo dalla
salvezza: le forze speciali del generale Dalla Chiesa stavano per fare
irruzione nel covo Br di via Montalcini, sotto controllo da settimane. Ma
all’ultimo minuto i militari furono fermati da una telefonata giunta dal
Viminale: abbandonare il campo e lasciare il presidente della Dc nelle mani dei
suoi killer.
E’ la sconvolgente rivelazione che Giovanni Ladu, brigadiere
della Guardia di Finanza di stanza a Novara, ha affidato a Ferdinando
Imposimato, oggi presidente onorario della Corte di Cassazione, in passato
impegnato come magistrato inquirente su alcuni casi tra i più scottanti della
storia italiana, compreso il sequestro Moro. Prima di passare il dossier alla
Procura di Roma, che ora ha riaperto le indagini, Imposimato ha impiegato
quattro anni per verificare le dichiarazioni di Ladu, interrogato nel 2010
anche dal pm romano Pietro Saviotti.
Decisive, a quanto pare, le testimonianze degli ex
“gladiatori” sardi Oscar Puddu e Antonino Arconte, l’allora agente del Sismi
che tempo fa rivelò di aver ricevuto da Roma la richiesta di contattare in
Libano i palestinesi dell’Olp per favorire la liberazione di Moro, ben 14
giorni prima che lo statista venisse effettivamente rapito. Secondo il
brigadiere Ladu, all’epoca semplice militare di leva nei bersaglieri, la
prigione romana di Moro, in via Montalcini 8, era stata individuata dai servizi
segreti e da Gladio e controllata per settimane. Non solo: «L’8 maggio del 1978
– scrive Piero Mannironi su “La Nuova
Sardegna” – lo statista Dc che sognava di cambiare la politica italiana doveva
essere liberato con un blitz delle teste di cuoio dei carabinieri e della
polizia, ma una telefonata dal Viminale bloccò tutto, e il giorno dopo Moro fu
ucciso. Il suo cadavere fu fatto ritrovare nel portabagagli di una Renault
rossa in via Caetani. In quel momento – continua Mannironi – la storia italiana
deragliò da un percorso progettato da Moro e dal suo amico-nemico Berlinguer,
tornando nello schema ortodosso della politica dei blocchi e incamminandosi poi
verso un tragico declino morale».
Il giudice Imposimato, ora avvocato, conobbe il
super-testimone Giovanni Ladu soltanto nel 2008: «Si presentò nel suo studio
all’Eur insieme a due colleghi, autorizzato dal suo comandante». Il brigadiere
delle Fiamme Gialle aveva scritto un breve memoriale, nel quale sosteneva di
essere stato con altri militari a Roma, in via Montalcini, per sorvegliare
l’appartamento-prigione in cui era tenuto il presidente della Dc. Un
appostamento cominciato il 24 aprile 1978 e conclusosi l’8 maggio, alla vigilia
dell’omicidio di Moro. Perché Ladu ha atteso ben trent’anni anni prima di
parlare? «Avevo avuto la consegna del silenzio e il vincolo al segreto – ha
detto a Imposimato – ma soprattutto avevo paura per la mia incolumità e per
quella di mia moglie. La decisione di parlare mi costa molto, ma oggi
Ferdinando Imposimatospero che anche altri, tra quelli che parteciparono con me
all’operazione, trovino il coraggio di parlare per ricostruire la verità sul
caso Moro».
Ladu ha raccontato che il 20 aprile del 1978 era partito
dalla Sardegna per il servizio militare. Destinazione: 231° battaglione
bersaglieri Valbella di Avellino. Dopo tre giorni, lui e altri 39 militari di
leva furono fatti salire su un autobus, trasportati a Roma e alloggiati nella
caserma dei carabinieri sulla via Aurelia, vicino all’Hotel Ergife. Furono
divisi in quattro squadre e istruiti sulla loro missione: sorveglianza e
controllo di uno stabile. A tutti i militari fu attribuito uno pseudonimo, e
Ladu diventò “Archimede”. Lui e la sua squadra presero possesso di un
appartamento in via Montalcini che si trovava a poche decine di metri dalla
casa dove, dissero gli ufficiali che coordinavano l’operazione, «era tenuto
prigioniero un uomo politico che era stato rapito». Il nome di Moro non venne
fatto, ma tutti capirono.
Il racconto di Ladu è ricco di dettagli: controllo visivo 24
ore su 24, micro-telecamere nascoste nei lampioni, controllo della spazzatura
nei cassonetti. Per mimetizzarsi, i giovani militari di leva indossavano tute
dell’Enel o del servizio di nettezza urbana. Così controllarono gli spostamenti
di “Baffo”, poi riconosciuto come Mario Moretti, che entrava e usciva sempre
con una valigetta, o della “Miss”, Barbara Balzerani. Vestito da operaio, un
giorno Ladu fu inviato con un commilitone a verificare l’impianto delle
telecamere all’interno della palazzina dove era detenuto Moro. Invece di
premere Moro nelle mani delle Brl’interruttore della luce, il brigadiere sardo
si sbagliò e suonò il campanello. Aprì la “Miss” e Ladu improvvisò con
prontezza di spirito, chiedendo se era possibile avere dell’acqua.
Un racconto agghiacciante nella sua precisione, continua il
reporter della “Nuova Sardegna”. Nell’appartamento sopra la prigione di Moro
erano stati piazzati dei microfoni che captavano le conversazioni. La cosa che
stupì Ladu era che il personale addetto alle intercettazioni parlava inglese.
«Scoprimmo in seguito – ricorda – che si trattava di agenti segreti di altre
nazioni, anche se erano i nostri 007 a sovrintendere a tutte le operazioni».
Altri particolari: era stato predisposto un piano di evacuazione molto discreto
per gli abitanti della palazzina ed era stata montata una grande tenda in un
canalone vicino, dove era stata approntata un’infermeria nel caso ci fossero
stati dei feriti, nel blitz delle teste di cuoio, le unità speciali
antiterrorismo dei carabinieri di Dalla Chiesa.
«L’8 maggio tutto era pronto – dice ancora Ladu – ma accadde
l’impensabile. Quello stesso giorno, alla vigilia dell’irruzione, ci
comunicarono che dovevamo preparare i nostri bagagli perché abbandonavamo la
missione. Andammo via tutti, compresi i corpi speciali pronti per il blitz e
gli agenti segreti. Rimanemmo tutti interdetti perché non capivamo il motivo di
questo abbandono. La nostra impressione fu che Moro doveva morire». Ladu ha
raccontato di aver sentito dire da alcuni militari dei corpi speciali che tutto
era stato bloccato da una telefonata giunta dal ministero dell’interno. Mentre
smobilitavano, un capitano intimò al brigadiere sardo: «Dimenticati di tutto
quello che hai fatto in questi ultimi 15 giorni». Successivamente, seguendo una
trasmissione in tv, Ladu avrebbe riconosciuto uno degli ufficiali che
coordinavano l’operazione: il Antonino Arcontegenerale Gianadelio Maletti, ex
capo del controspionaggio del Sid, che i militari in quei giorni avevano
soprannominato, per la sua pettinatura, “Brillantina Linetti”.
Imposimato è rimasto inizialmente perplesso e diffidente: il
racconto di Ladu sconvolge tutte le esperienze investigative precedenti, ne
annulla tutte le certezze e, soprattutto, pone un problema terribile: bloccando
il blitz, qualcuno avrebbe quindi decretato la morte di Aldo Moro. «Per quattro
anni, così, quel racconto rimase sospeso, in attesa di conferme e riscontri»,
aggiunge Mannironi. «Fino a quando non comparve il “gladiatore” Oscar Puddu».
Grazie all’ex agente della “Gladio”, il quadro di quei giorni drammatici del
1978 è parso completarsi, trovando una nuova credibilità. Nel frattempo, lo
stesso Imposimato aveva conosciuto altri ex “gladiatori” sardi, Antonino
Arconte e Pierfrancesco Cancedda, e ascoltato i loro sconvolgenti racconti sul
caso Moro: «Confermavano che nel mondo dei servizi segreti si sapeva
dell’imminente sequestro di Moro». Arconte, in particolare, ricorda di aver
personalmente consegnato, a Beirut, l’ordine di contattare l’Olp per stabilire
un contatto con le Br, prima ancora del sequestro Moro. L’uomo a cui all’epoca
Arconte consegnò il dispaccio, il colonnello Mario Ferraro, del Sismi, anni
dopo fu trovato morto nella sua Carlo Alberto Dalla Chiesaabitazione romana, in
circostanze mai chiarite.
«Giovanni Ladu, poi, non aveva e non ha alcun interesse a
risvegliare i fantasmi che popolano uno dei fatti più oscuri della vita della
Repubblica», osserva il giornalista della “Nuova Sardegna”. «Lui, soldato di
leva in quel 1978, venne proiettato in un universo sconosciuto del quale sapeva
poco o nulla». Ma perché il Sismi per una missione così delicata scelse di
utilizzare quel manipolo di ragazzi inesperti? «Vista l’età, erano meno
visibili, meno sospettabili da parte dei terroristi». Inoltre, non erano soli:
secondo Ladu, erano controllati dal generale Musumeci, dai suoi uomini e da 007
che parlavano inglese. Resta da capire chi avrebbe fatto quella telefonata dal
Viminale che, secondo questa ricostruzione, avrebbe condannato a morte Aldo
Moro. A fermare Musumeci, conclude Mannironi, potevano essere solo Cossiga,
ministro dell’interno, o Andreotti, presidente del Consiglio. Secondo Oscar
Puddu, il generale Dalla Chiesa insistette per il blitz, ma fu bloccato da
Andreotti e Cossiga. «Lo convocarono a Forte Braschi, la sede del Sismi, e lo redarguirono
duramente». Come si sa, Dalla Chiesa fu poi trasferito a Palermo, dove fu
ucciso in un agguato organizzato da Cosa Nostra.
Fonte: http://www.libreidee.org/2013/06/potevano-liberare-moro-ma-una-telefonata-fermo-il-blitz/
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