CHI POSSIEDE O CONTROLLA, SEDUTO NEI CONSIGLI DI
AMMINISTRAZIONE, I PRINCIPALI QUOTIDIANI ITALIANI? INCHIESTA SULLA LONGA MANUS
DELLA BANCHE E DELL’INDUSTRIA NELLA CARTA STAMPATA
La teoria dei ‘sei gradi di separazione’ è un’ipotesi
secondo cui qualunque persona può essere collegata a qualunque altro abitante
del globo terrestre attraverso una catena di conoscenze con non più di cinque
intermediari.
Proposta per la prima volta nel 1929 dallo scrittore
ungherese Karinthy in un racconto breve intitolato Catene, venne confermata nel
1967 dal sociologo americano Stanley Milgram e più tardi, nel 2001, da Duncan
Watts della Columbia University. La ricerca di Watts, pubblicata su Science nel
2003, permise l’applicazione della teoria dei sei gradi di separazione anche in
aree differenti, tra cui l’analisi delle reti informatiche ed elettriche, la
trasmissione delle malattie, la teoria dei grafi, le telecomunicazioni e la
progettazione della componentistica dei computer.
La nostra inchiesta vuole dimostrare che la legge di Watts
non si applica alle relazioni fra le principali testate giornalistiche italiane
e il capitalismo industriale-finanziario, o più precisamente che, analizzando i
legami esistenti, andrebbe corretta al ribasso, in non più di tre gradi di
separazione. Con quali effetti sulla libertà di informazione?
La cosiddetta linea editoriale è ciò che distingue in
sostanza una testata giornalistica da un’altra. Rappresenta, diremmo in
linguaggio aziendale, una sorta di missione strategica, l’ipotesi di fondo a
partire dalla quale si scelgono e si analizzano le notizie. Dall’esistenza di
linee editoriali diverse – il cosiddetto pluralismo informativo – dipende la
qualità dell’informazione, perché il pluralismo garantisce al cittadino/lettore
la possibilità di conoscere notizie differenti lette da punti di vista
differenti. Non solo.
Dal pluralismo informativo dipende anche la possibilità che
uno Stato possa dirsi democratico, dal momento che un elettore adeguatamente
informato è messo in condizione di esercitare un voto consapevole. Il caso
opposto, quello cioè di una rappresentazione univoca della realtà
socio-politico-economica di un Paese (pensiamo alla Pravda di staliniana
memoria), impedisce la corretta formazione del consenso, e quindi il libero
esplicarsi dei meccanismi democratici.
Ciò detto, dove si forma la linea editoriale di una testata?
Come suggerisce il termine, è espressione della visione
dell’editore, e si forma nel luogo in cui questi (che è il proprietario del
giornale) prende le sue decisioni strategiche. Nelle moderne società
capitalistiche questo luogo è il Consiglio di amministrazione. Diamo quindi
un’occhiata a chi siede nei Cda dei principali giornali italiani e valutiamo di
quali tipi di interessi siano portatori, dal momento che sulla base degli
interessi del Consiglio si forma la linea editoriale.
Partiamo dal più importante quotidiano a diffusione
nazionale, il Corriere della Sera. Il suo editore è il gruppo RCS (Rizzoli
Corriere della Sera), quotato in borsa. Il Corsera ha fama di essere il
giornale super partes per definizione, quello che meglio rappresenta il tipo di
linea editoriale tipico dell’informazione anglosassone (come si dice di solito,
‘all’americana’), per definizione indipendente da interessi particolari.
Ma, analizzando il suo Cda, più che super partes dovremmo
definirlo inter partes: in esso siedono infatti John Elkann, presidente di Fiat
e di Exor (la holding finanziaria della famiglia Agnelli); Franzo Grande
Stevens, avvocato storico di casa Agnelli, ex vicepresidente Fiat e attualmente
presidente della Fondazione San Paolo; Carlo Pesenti, consigliere di Italcementi,
Unicredit, Italmobiliare e Mediobanca; Berardino Libonati, consigliere di
Telecom Italia e Pirelli; Jonella Ligresti, consigliere di Fondiaria,
Italmobiliare e Mediobanca; Diego Della Valle, consigliere di Tod’s, Marcolin e
Generali Assicurazioni; Renato Pagliaro, consigliere di Telecom Italia, Pirelli
e Mediobanca; Giuseppe Lucchini delle omonime acciaierie; Paolo Merloni, CEO
(Chief Executive Officer, ossia amministratore delegato) di Merloni
Finanziaria, gruppo Indesit Company; Enrico Salza, consigliere di Intesa San
Paolo; Raffaele Agrusti, consigliere di Assicurazioni Generali; Roberto
Bertazzoni, consigliere di Mediobanca; e Claudio De Conto, di Pirelli Real
Estate.
Fra Corsera e Fiat, Pirelli, Telecom Italia, Mediobanca,
Intesa, e tutte le altre aziende citate, ci sono zero gradi di separazione,
cioè sono direttamente collegate fra loro. Grande finanza, banche,
assicurazioni, automotive, telecomunicazioni, cementifici, acciaierie,
pneumatici, immobili, moda, elettrodomestici: non c’è praticamente nessun
settore del made in Italy che non possa dire la sua sui contenuti e sulla
posizione del giornale. Viene da dire che in Italia essere indipendenti
coincide col dipendere da tutti, nessuno escluso: la linea editoriale del
Corrierone nazionale risentirà quindi delle esigenze e degli accordi reciproci
fra le aziende che siedono in Consiglio: nessuna visione strategica a
prescindere, e una pletora di manovre tattiche in risposta alle necessità del
momento.
Meno compromessa, ma solo all’apparenza, La Repubblica, che
fa parte del Gruppo l’Espresso di Carlo De Benedetti. Nel Cda de L’Espresso
troviamo Sergio Erede, amministratore di Luxottica; Luca Paravicini Crespi,
consigliere della Piaggio dei Colaninno (dove siede accanto a Vito Varvaro, il
quale a sua volta è anche nel Cda della Tod’s di Diego Della Valle) e figlio di
Giulia Maria Crespi, ex direttore editoriale del Corriere ed ex presidente del
Fai; e Mario Greco, consigliere di Indesit Company (dove siede anche Emma
Marcegaglia) e della Saras di Massimo Moratti (già rappresentato nel Cda del
Corriere attraverso i consiglieri del gruppo Pirelli).
Massimo Moratti rappresenta inoltre il trait d’union fra il
Gruppo L’Espresso e la famiglia Berlusconi, poiché siede, oltre che nel Cda
della Saras, anche in quello della Pirelli, accanto a Carlo Secchi, ex rettore
della Bocconi e amministratore Mediaset.
La famiglia Berlusconi controlla direttamente Il Giornale,
edito dal gruppo Mondadori, mentre la famiglia Agnelli è proprietaria del
quotidiano La Stampa di Torino.
Il Messaggero di Roma, il Mattino di Napoli, il Gazzettino
di Venezia e il Nuovo Quotidiano di Puglia sono editi dalla Caltagirone
Editore, di proprietà della famiglia Caltagirone (grandi opere, cementifici,
immobili): fra gli altri, siedono nel Cda di Caltagirone Editore, Azzurra
Caltagirone, moglie di Pier Ferdinando Casini, e Francesco Gaetano Caltagirone,
consigliere di Monte dei Paschi e di Generali Assicurazioni.
Il Resto del Carlino di Bologna, la Nazione di Firenze e Il
Giorno di Milano sono invece posseduti dalla Poligrafici Editoriale, collegata
con due gradi di separazione a Telecom Italia, Generali Assicurazioni e Gemina
(attraverso Massimo Paniccia e Aldo Minucci); e con tre gradi di separazione
(attraverso Roberto Tunioli, Sergio Marchese e Giuseppe Lazzaroni), alla
Premafin della famiglia Ligresti.
Infine una notazione quasi umoristica. Libero, l’aggressiva
testata di destra e Il Riformista, quotidiano timidamente di sinistra, hanno lo
stesso editore (e quindi zero gradi di separazione!): Giampaolo Angelucci,
proprietario di un impero fatto di cliniche e strutture sanitarie (fra cui
l’ospedale S. Raffaele di Roma), e messo agli arresti domiciliari il 9 febbraio
dello scorso anno per falso e truffa ai danni delle Asl.
La situazione non migliora, anzi se possibile peggiora,
quando si analizzano i quotidiani finanziari. Il Sole 24 Ore, come è noto, è
appannaggio dell’universo Confindustria, quindi diretta espressione dei
desiderata dei principali gruppi industriali del Paese. Nel suo Cda siedono, fra
gli altri, Giancarlo Cerutti, consigliere di amministrazione di Saras; Luigi
Abete, presidente di Bnl (gruppo Paribas), fratello di Giancarlo Abete
(presidente della Figc) e consigliere anche della Tod’s di Diego Della Valle; e
Antonio Favrin, collega di Cda, in Safilo Group, di Ennio Doris, che siede in
Mediolanum della famiglia Berlusconi e in Mediobanca.
A proposito dei legami fra industria, editoria e sport, è
interessante notare come quattro delle principali squadre di calcio italiane
appartengono a gruppi industriali che possiedono, o amministrano più o meno
direttamente, almeno un quotidiano generalista: la Juventus degli Agnelli (che
influenzano la Stampa e il Corriere), il Milan di Berlusconi (Il Giornale), la
Fiorentina dei fratelli Della Valle (il Corriere), e infine l’Inter di Massimo
Moratti (il Corriere e La Repubblica).
Milano Finanza e Italia Oggi, quotidiani economici molto
conosciuti fra gli addetti ai lavori, sono invece editi dalla Class dei
fratelli Panerai, e nel Cda del gruppo “leader nell’informazione finanziaria,
nel lifestyle e nei luxury good products” (come si autodefinisce), siedono
Maurizio Carfagna, consigliere di Mediolanum, e Victor Uckmar, il più celebre
fiscalista italiano, i cui servigi sono stati richiesti in passato da ogni
possibile gruppo industriale, e che oggi è amministratore della Tiscali di
Renato Soru.
Non sorprende quindi che gli analisti finanziari italiani
lamentino l’impossibilità di rintracciare informazioni equilibrate sulla base
delle quali valutare i bilanci delle società, o che scandali come quello della
Cirio o della Parmalat siano stati tenuti nascosti finché non è stato ‘troppo
tardi’ perché i piccoli investitori (ma non le grandi banche!) potessero
rendersi conto della reale situazione.
E qui è necessario notare un dettaglio sconcertante. Tiscali
è l’editore de L’Unità – il quotidiano del principale partito ‘di sinistra’ del
Paese, il Pd – che risulta pertanto a un solo grado di separazione da Milano
Finanza e Capital (attraverso Uckmar); e a due gradi di separazione (lo stesso
Uckmar e Carfagna), dalla Mediolanum di Berlusconi.
Esiste poi un Consiglio di amministrazione dove tutti i
gruppi industriali e bancari citati, a eccezione della famiglia De Benedetti,
si incontrano, ed è quello di Mediobanca, ai tempi di Enrico Cuccia – suo
fondatore – il ‘salotto buono’ della grande finanza, quella che dirigeva i
destini dell’economia italiana sulla base di un preciso progetto strategico
(più o meno condivisibile, per carità, ma almeno un progetto c’era), e ora
trasformato in enclave di ogni possibile mediazione.
Nessuno stupore che l’economia italiana navighi, per la
verità a ritmi piuttosto bassi, alla deriva, priva com’è di un timoniere (una
volta questo era il ruolo dei politici), in grado di darle una rotta qualsiasi.
E ora tiriamo le somme: se sei sono i gradi di separazione
fra due entità qualsiasi prese a caso, è evidente che tre, due, uno, o nessun
grado di separazione non rappresentano un legame casuale. Esiste quindi la
precisa volontà da parte di industria e finanza di controllare le notizie.
Prova ne sia l’ostinazione con cui tanti imprenditori e manager italiani (un
esempio per tutti – senza scomodare Silvio Berlusconi – è Diego Della Valle,
che si è sottoposto ad anni di paziente anticamera pur di essere ammesso al Cda
del Corsera), cercano di forzare la porta dei circuiti informativi.
Ovviamente non è prudente che il legame sia sempre diretto,
perché una situazione di controllo trasparente potrebbe far nascere qualche
lecito dubbio nella mente dei cittadini lettori/elettori sull’attendibilità di
quel che apprendono nella lettura dei quotidiani o addirittura potrebbe
obbligare i direttori e le redazioni dei grandi giornali a fare i conti con il
loro ruolo di utili idioti (ovviamente in buona fede, non ne abbiano a male per
la definizione).
Divengono quindi necessari degli ‘intermediari’ che
intorbidino le acque nascondendo gli interessi reali, e che nello stesso tempo
costituiscano il trait d’union fra quelli che devono apparire come opposti
estremismi.
Il profilo tipico di questa figura essenziale è quello del
‘tecnico’: avvocato, consulente, commercialista, revisore, sempre al corrente
dei panni sporchi di famiglia (di più famiglie), al contempo confessore e uomo
di fiducia, vincolato, più o meno direttamente, al segreto professionale.
Come Berardino Libonati (classe 1934), titolare dello studio
legale Jaeger-Libonati e ordinario di diritto commerciale all’Università La
Sapienza di Roma, che ha ricoperto la carica di presidente del Cda del Banco di
Sicilia dal 1994 al 1997; dal 1998 al 1999 e stato presidente di Telecom Italia
e di Tim; ha fatto parte del collegio sindacale di Eni dal 1992 al 1995; dal
2003 al 2007 è stato membro del Cda della Nomisma di Romano Prodi; dal 2001 al
2007 è stato consigliere di amministrazione di Mediobanca; è stato presidente
del Cda di Alitalia dal febbraio al luglio 2007, e presidente del Cda di Banca
di Roma dal 2002 al 2007. Attualmente, oltre a far parte dei Cda di Pirelli,
Telecom e RCS, è vicepresidente del gruppo Unicredit. Nel suo curriculum vitae
pubblicato sul sito di Pirelli, in una nota particolarmente umoristica, si
legge che “è in possesso dei requisiti contemplati dal codice di autodisciplina
delle società quotate per essere qualificato come indipendente”.
Un altro ‘super tecnico’ è Mario Greco (classe 1957),
consigliere del gruppo l’Espresso, di Saras, di Indesit Company, di Fastweb e
di Banca Fideuram, laureato con lode in economia all’Università di Roma.
Partner fino al 1994 di McKinsey&Company, la più importante società
mondiale di consulenza strategica, è stato amministratore delegato e CEO di Ras
dal 1998 fino al 2005.
Poi c’è Carlo Secchi (classe 1944), professore ordinario di
Politica economica europea all’Università Commerciale Luigi Bocconi (è stato il
diciassettesimo rettore della stessa università dal 2000 al 2004), attualmente
nel Consiglio di amministrazione di cinque aziende quotate in borsa: Pirelli,
Italcementi, Mediaset, Allianz-Ras e Parmalat, nonché di Fondazione Teatro alla
Scala, TEM Tangenziali Esterne di Milano, Milano Serravalle, La Centrale
Sviluppo del Mediterraneo, Premuda, e futuro consigliere della società che
dovrà organizzare l’Expo 2015 a Milano.
Uomini potenti perché – loro sì – informati, ma nello stesso
tempo condannati a servire il sistema, indispensabili ma sostituibili, schiavi
delle beghe piccole e grandi e dei capricci degli imprenditori di cui sono al
soldo, con la loro indubbia statura professionale che basta a stento a
ritoccare la facciata.
Quali sono gli effetti di questa tragica analisi sulla
libertà di informazione?
7 aprile 2010. Poco prima delle 10.30 decolla dall’aerodromo
militare di Payerne il primo aereo alimentato esclusivamente a energia solare.
Si chiama Solar Impulse e ha sorvolato per due ore la Svizzera occidentale.
L’aereo è stato progettato per volare giorno e notte senza produrre alcuna
emissione. Sulle ali del Solar Impulse, costruito in fibra di carbonio, sono
installate 12mila cellule fotovoltaiche. L’aereo è a elica ed è spinto da
quattro motori elettrici.
Il velivolo, per la cui costruzione sono stati impiegati sei
anni, è il prototipo di un aeroplano che secondo i programmi compirà il giro
del mondo senza carburante nel 2012. Si tratta di un aereo dalle vaste
dimensioni, ha infatti l’apertura alare di un Airbus A340, ma il suo peso è
equivalente a quello di un’auto di medie dimensioni.
In un periodo in cui il prezzo del petrolio è in brusca
risalita e il tema della sostenibilità ambientale sempre più trattato, ci si
immagina che questa notizia debba ricevere gli onori della cronaca e che venga
salutata con entusiasmo. Invece no, in Italia nemmeno una parola, né in
televisione né sui giornali, con l’eccezione di un articoletto sul Sole 24 Ore
pubblicato sull’inserto online Nuove energie e di un pezzo su L’Osservatore
Romano. Forse perché l’opinione pubblica rimanga convinta dell’insostituibilità
dell’oro nero?
Quante altre notizie non vengono date? Non possiamo saperlo,
ma siamo ragionevolmente certi che le notizie pubblicate sono quelle che non
infastidiscono nessuno. Cronaca nera, pettegolezzi politici e non, pochissimo
approfondimento e quasi nessuna inchiesta, notizie dall’estero estremamente
limitate, e solo quando non se ne può fare a meno: guerre, tsunami, terremoti.
Anche la lotta tutta nostrana fra chi è pro e chi contro Berlusconi, fra il
partito dell’odio e quello dell’amore, o la querelle fra Stato confessionale e
Stato laico, sono comode cortine di fumo per non parlare di altro: la crisi
economica, la responsabilità delle banche nel suo perdurare, la grande impresa
che non sa che fare.
Emma Marcegaglia chiede al governo, nel corso del convegno
degli industriali del 10 aprile 2010, di impegnarsi entro due mesi per un
investimento di almeno 1 miliardo di euro su ricerca e innovazione e di circa
1-1,5 miliardi sulle opere infrastrutturali. Ma con i soldi di chi? E tagliando
quali costi? E cosa ci darebbe in cambio la grande industria? Emma non lo dice,
nessuno glielo chiede. Intrallazzi fra pubblico e privato costantemente
oscurati, miliardi che corrono ma nessuno lo sa, accordi sottobanco con la
criminalità organizzata, servizi segreti a disposizione di interessi privati:
verità solo annusate che è impossibile addentare, mentre leggiamo di pedofilia
vaticana, di un federalismo misterioso, dell’ennesima esternazione di un
premier che ormai ha superato i confini del bene e del male e della morte
prematura di un Presidente polacco. È proprio il caso di dirlo: beata
ignoranza!
Giovanna Baer
http://www.rivistapaginauno.it/Legami-stampa-industria-finanza.php
http://risvegliodiunadea.altervista.org/
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