Gli elefanti africani hanno almeno 40 copie di un gene che esprime un noto soppressore tumorale: un essere umano ne ha solamente due
SCOPERTE – Gli elefanti africani hanno almeno 40 copie alternative (alleli) del gene che codifica per un noto soppressore tumorale, p53, ed è per questo che succede molto di rado che uno di questi animali si ammali di tumore: la loro resistenza al cancro è elevatissima. La scoperta, che arriva dopo decenni di studi in materia, è il risultato del lavoro dei ricercatori dell’Huntsman Cancer Institute della University of Utah and Arizona State in collaborazione con gli scienziati del Ringling Bros. Center for Elephant Conservation.
Un elefante ha cento volte la quantità di cellule di un essere umano ed è un animale estremamente longevo, il che, spiegano i ricercatori, farebbe logicamente pensare che sia anche 100 volte più a rischio di ammalarsi di cancro: ora sappiamo perché non succede e perché la mortalità per tumore di un elefante sia ben al di sotto del 5% (mentre per noi si assesta tra l’11 e il 25%).
Il gene in questione è TP53 e secondo gli autori dello studio, pubblicato su JAMA, è parte dell’efficace meccanismo con il quale gli elefanti si proteggono dai tumori, distruggendo le cellule danneggiate a rischio di diventare cancerose. “La natura ha già capito come prevenire il cancro. Sta a noi studiare e imparare come diverse specie animali affrontano il problema, in modo da adattare quelle stesse strategie e impedire l’insorgenza dei tumori nelle persone”, spiega Joshua Shiffman, co- autore della pubblicazione. In una coltura di cellule elefantine l’attività di TP53 è raddoppiata rispetto a quella osservata nelle cellule umane, e cinque volte più intensa rispetto a quella di un paziente con la sindrome di Li-Fraumeni (che con una sola copia funzionante del gene ha oltre il 90% di probabilità di ammalarsi di tumore nel corso della vita).
Cellule suicide
La maggior parte degli alleli di TP53 (38 su 40) sono retrogeni, duplicati modificati che hanno fatto la loro comparsa in serie nel corso dell’evoluzione. Quando Schiffman e i colleghi hanno sottoposto i leucociti degli elefanti a trattamenti che danneggiano il DNA, le cellule hanno reagito con la risposta nota per essere mediata da p53: si sono suicidate.
“È un po’ come se l’elefante avesse pensato ‘È talmente importante che io non mi ammali di cancro che la cosa migliore da fare è uccidere le cellule e ricominciare da capo.’”, commenta Schiffman, “Se uccidi le cellule malate le elimini, e con loro la possibilità che diventino un tumore. Potrebbe essere un approccio migliore nella prevenzione dei tumori, rispetto al cercare di fermare cellule mutate dal continuare a dividersi”. Ora i ricercatori cercheranno di scoprire se l’attività antitumorale legata a TP53 sia diretta o se siano coinvolti altri meccanismi ancora da svelare.
“Non vediamo l’ora di poter vivere in un mondo con più elefanti e meno cancro”, racconta Alana Feld del Center for Elephant Conservation, “il nostro staff ha instaurato un legame incredibile con questi animali maestosi, e prendercene cura così da vicino ci rende facile raccogliere i campioni di sangue per le analisi di routine, gli stessi che poi abbiamo fornito al dottor Schiffman per la ricerca”.
Creative Commons Attribuzione-
SCOPERTE – Gli elefanti africani hanno almeno 40 copie alternative (alleli) del gene che codifica per un noto soppressore tumorale, p53, ed è per questo che succede molto di rado che uno di questi animali si ammali di tumore: la loro resistenza al cancro è elevatissima. La scoperta, che arriva dopo decenni di studi in materia, è il risultato del lavoro dei ricercatori dell’Huntsman Cancer Institute della University of Utah and Arizona State in collaborazione con gli scienziati del Ringling Bros. Center for Elephant Conservation.
Un elefante ha cento volte la quantità di cellule di un essere umano ed è un animale estremamente longevo, il che, spiegano i ricercatori, farebbe logicamente pensare che sia anche 100 volte più a rischio di ammalarsi di cancro: ora sappiamo perché non succede e perché la mortalità per tumore di un elefante sia ben al di sotto del 5% (mentre per noi si assesta tra l’11 e il 25%).
Il gene in questione è TP53 e secondo gli autori dello studio, pubblicato su JAMA, è parte dell’efficace meccanismo con il quale gli elefanti si proteggono dai tumori, distruggendo le cellule danneggiate a rischio di diventare cancerose. “La natura ha già capito come prevenire il cancro. Sta a noi studiare e imparare come diverse specie animali affrontano il problema, in modo da adattare quelle stesse strategie e impedire l’insorgenza dei tumori nelle persone”, spiega Joshua Shiffman, co- autore della pubblicazione. In una coltura di cellule elefantine l’attività di TP53 è raddoppiata rispetto a quella osservata nelle cellule umane, e cinque volte più intensa rispetto a quella di un paziente con la sindrome di Li-Fraumeni (che con una sola copia funzionante del gene ha oltre il 90% di probabilità di ammalarsi di tumore nel corso della vita).
Cellule suicide
La maggior parte degli alleli di TP53 (38 su 40) sono retrogeni, duplicati modificati che hanno fatto la loro comparsa in serie nel corso dell’evoluzione. Quando Schiffman e i colleghi hanno sottoposto i leucociti degli elefanti a trattamenti che danneggiano il DNA, le cellule hanno reagito con la risposta nota per essere mediata da p53: si sono suicidate.
“È un po’ come se l’elefante avesse pensato ‘È talmente importante che io non mi ammali di cancro che la cosa migliore da fare è uccidere le cellule e ricominciare da capo.’”, commenta Schiffman, “Se uccidi le cellule malate le elimini, e con loro la possibilità che diventino un tumore. Potrebbe essere un approccio migliore nella prevenzione dei tumori, rispetto al cercare di fermare cellule mutate dal continuare a dividersi”. Ora i ricercatori cercheranno di scoprire se l’attività antitumorale legata a TP53 sia diretta o se siano coinvolti altri meccanismi ancora da svelare.
“Non vediamo l’ora di poter vivere in un mondo con più elefanti e meno cancro”, racconta Alana Feld del Center for Elephant Conservation, “il nostro staff ha instaurato un legame incredibile con questi animali maestosi, e prendercene cura così da vicino ci rende facile raccogliere i campioni di sangue per le analisi di routine, gli stessi che poi abbiamo fornito al dottor Schiffman per la ricerca”.
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