Secondo i suoi inventori doveva creare conversazioni più umane e amichevoli ma sta succedendo il contrario, scrive il New York Times
La scorsa settimana il cofondatore e CEO di Facebook, Mark Zuckerberg,ha annunciato che insieme alla moglie darà in beneficenza il 99 per cento delle sue azioni della società, che attualmente hanno un valore intorno ai 45 miliardi di dollari. Poco dopo l’annuncio sui social network moltissimi hanno scoperto di essere esperti di filantropia, e hanno litigato tra chi ha difeso la scelta di Zuckerberg e chi l’ha giudicata un’operazione opportunistica “per-pagare-meno-tasse”. All’inizio della settimana un candidato alle primarie repubblicane per le presidenziali negli Stati Uniti, Donald Trump, ha proposto di chiudere i confini per impedire ai musulmani di entrare nel paese, a suo dire l’unica soluzione per evitare altre stragi come quella di San Bernardino in California da parte di due estremisti. Su social network e blog la proposta di Trump è stata definita assurda, impraticabile o geniale a seconda dei casi, con ulteriori litigi, insulti, provocazioni e discussioni infinite e infruttuose. Gli esempi potrebbero proseguire a lungo e portano sempre alla stessa domanda: è Internet che ci rende peggiori?
Sul New York Times di oggi Farhad Manjoo prova a dare una risposta, o per lo meno prova a offrire qualche riflessione sul tema: “Non sarebbe quasi un mondo da sogno, in queste recenti settimane così sovreccitate, vivere liberi dai social media?”. Manjoo non è un vecchio editorialista conservatore e trombone: è un trentottenne giornalista esperto di tecnologia e internet, appassionato di innovazioni, che si occupa di questi temi da anni e in passato ha scritto anche su Slate e sulWall Street Journal. I toni su Internet sono quasi sempre sopra le righe, dice Manjoo, ma quest’anno lo sono stati più del solito: estremisti di ogni tipo riescono a spiccare nel rumore di fondo e ottenere più visibilità a scapito di chi ha toni più pacati e ragionevoli, rendendo di fatto Internet un posto inospitale. Susan Benesch, docente dell’università di Harvard, spiega: “È diventato così comune incappare in spazzatura e violenza online che le persone ormai hanno accettato la cosa. Ed è diventato tutto così rumoroso da obbligarti a urlare più forte, e dicendo cose più scioccanti, per farti sentire”.
Parte della sovreccitazione online è dovuta ai tempi in cui viviamo e alle notizie che riceviamo, ormai quotidianamente, su attacchi terroristici, uccisioni di massa, sparatorie, razzismo, proteste e violenze di ogni tipo da tutto il mondo. Le informazioni su queste cose vengono condivise rapidamente sui social network e commentate ancora più velocemente, spesso senza pensarci più di tanto o avere un’idea precisa di quali siano le cause e le circostanze in cui si sono verificati determinati fatti. Manjoo scrive che i social network contribuiscono ad alimentare un circolo vizioso di azione e reazione: “La reazione di Internet a una determinata situazione diventa parte e seguito della storia, così da intrappolare i media in una escalation, in un giro infinito di 140 caratteri, di reazioni d’impulso e istantanee”.
Quando Donald Trump dice qualcosa di insulso, come “bisogna chiudere Internet”, le sue parole non vengono solo riprese da qualche giornale o televisione: “diventano un’ondata di contenuti che continuano a ripetersi e a sovrapporsi nelle tue timeline, trasformandosi nella cosa predominante”, spiega Whitney Philips, docente presso la Mercer University e autore di diverse ricerche sui troll online. Una volta che si avvia questo meccanismo si produce una spirale di “contenuti sui contenuti” che in realtà non porta avanti la conversazione ma semmai la dirotta verso battute a caldo, opinioni campate in aria e spesso prive di qualsiasi base oggettiva. Manjoo sul New York Times scrive: “In ogni argomento o sei parte di un gruppo o di un altro: più riesci a esprimere il tuo sdegno aspramente, più reazioni otterrai dall’altra parte”.
Un recente esempio, molto discusso, è riguarda l’opinionista statunitense di estrema destra Erick Erickson. In seguito alla pubblicazione di un editoriale sulla prima pagina del New York Times in cui si chiedeva un maggior controllo delle armi in America, Erickson si è procurato una copia del giornale e l’ha crivellata di colpi di pistola. Poi ha scattato una fotografia del New York Times con i buchi lasciati dai proiettili e l’ha pubblicata su Twitter, dove è stata molto ripresa e commentata.
Manjoo ricorda che Internet non fu inventata “per essere così brutta: ai primi tempi, i suoi pionieri avevano in serbo grandi idee sulla capacità del Web di espandere la democrazia”. John Perry Barlow, uno dei più famosi attivisti per la libertà della rete, scrisse nel 1996 una sorta di manifesto in cui auspicava che in futuro il mondo potesse essere “più umano e giusto del mondo creato in precedenza dai governi”. Naturalmente Internet ha avuto nel complesso il merito di creare nuove opportunità economiche, di migliorare il livello di istruzione e di portare più democrazia in molte parti del mondo. Ma le discussioni che nascono online e le interazioni fra gli utenti non sono all’altezza degli ideali espressi da Barlow e da chi creò Internet nei suoi primi giorni.
Secondo Benesch, Barlow ebbe il difetto di pensare che “con maggiori capacità di comunicazione e la possibilità di raggiungere direttamente gli individui si genera un tipo di comunicazione migliore, più gentile e amichevole”. Nella pratica, conclude Manjoo, tutto questo non si è verificato: “Internet può migliorare o peggiorare il modo in cui parliamo con qualcun altro. Per ora, e forse per il futuro prossimo, stiamo andando verso il peggio”.
fonte: ilpost
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