DI ARIEL NOYOLA RODRIGUEZ
Il sistema della riserva federale degli Stati Uniti (acronimo FED) ha finito col farlo: ha dichiarato aperte le ostilità mercoledì 16 dicembre alle ore 14 (ora di Washington DC), annunciando la decisione di alzare il prezzo del denaro dello 0,25%. In questo modo, il tasso d'interesse dei fondi federali (federal funds rate), quello che le banche si applicano fra di loro per i prestiti d'un giorno, è passato da un massimo del 0,25% dal 2008 ad un nuovo livello oscillante tra lo 0,25% e lo 0,5%. Si tratta del primo aumento dei tassi d'interesse in quasi dieci anni. L'ultima volta era stato nel 2006, quando si cominciavano ad intravvedere i primi segni della crisi dei subprime negli USA. È risaputo che già da un po' di tempo la presidente della FED, Janet Yellen, avesse avvisato il mondo intero che lo avrebbe fatto il più presto possibile, ossia alzare i tassi d'interesse sui fondi federali, elemento fondamentale nella determinazione del costo del credito a livello internazionale.
Secondo la maggior parte dei membri del Comitato Federale del Mercato Aperto (FOMC, in inglese) della riserva federale, l'aspetto più preoccupante dell'economia degli Stati Uniti era legata all'evoluzione del mercato del lavoro. Secondo le sue regole fondative, la FED deve rispettare i tre seguenti obbiettivi: stabilità finanziaria, bassa inflazione e pieno impiego.
Paragonati alle cifre del 2008, oggi i principali indici della Borsa di New York (Dow Jones, Nasdaq et Standard & Poor’s 500) sembrano essersi rimessi in piedi, anche se l'economia degli USA non ha ancora raggiunto i livelli d'investimento produttivo e d'impiego di sette anni fa. Tuttavia, secondo la FED, tutto è sotto controllo, poiché la volatilità del mercato borsistico, osservata durante tutto l'anno passato, non riflette tanto i “problemi strutturali” dell'economia degli Stati Uniti, ma obbedisce a “leggere correzioni” dei prezzi dei titoli finanziari.
Di conseguenza, anche se esistono alcune minacce sulla stabilità finanziaria, queste non sono così importanti da rimettere in questione la ripresa economica, secondo la gran parte dei funzionari della FED. D'altra parte ci sono diversi motivi d'angoscia in relazione all'inflazione, poiché il livello dei prezzi negli Stati Uniti è sempre sotto il 2%, obiettivo della FED da più di tre anni. Ora, se è vero che compito della FED è controllare la stabilità dei prezzi, il loro livello è eccessivamente basso da troppo tempo. Questo è un indiscutibile segno della cattiva salute dell'economia.
Le misure di rilancio monetario e fiscale messe in pratica, rispettivamente, dalla Federal Reserve e dal dipartimento del Tesoro non sono riuscite a rinforzate l'inflazione negli States; il più grande pericolo è che, da un momento all'altro, la debole inflazione si trasformi in deflazione (caduta dei prezzi), il più grande incubo dei capitalisti. Secondo le cifre del Dipartimento del lavoro dello scorso mese d'ottobre, l'indice dei prezzi al consumo (IPC) è aumentato a malapena dello 0,2%, in rapporto allo stesso periodo del 2014. Se si escludono i prezzi dei beni alimentari e dell'energia, l'aumento è stato del 1,9%. A novembre, le cifre hanno mostrato un leggero miglioramento grazie ad un aumento dello 0,5% dell'IPC sull'anno e del 2% se si escludono i prezzi dei beni alimentari. Janet Yellen è sicura che nel medio termine, mano mano che la ripresa s'intensificherà, l'inflazione finirà per avvicinarsi sempre più all'obiettivo del 2%.
La Federal Reserve deve vegliare anche sul dinamismo del mercato del lavoro. Nel gergo economico “pieno impiego” significa essere nella situazione in cui il paese in questione utilizza la maggior parte delle sue capacità produttive. Quando il tasso di disoccupazione si situa intorno al 5%, il governo degli Stati Uniti considera il paese in situazione di pieno impiego. Secondo i dati più recenti, la massa dei salari non agricoli è aumentato in modo considerevole a fine 2015, in modo particolare a novembre, con un aumento di 211 mila nuovi posti di lavoro. Così, il tasso ufficiale di disoccupazione è calato dal 10% del 2009 all'attuale 5% circa. Tuttavia, non dobbiamo tralasciare che, se consideriamo una definizione molto più larga di disoccupato, secondo la metodologia U-6, che tiene in considerazione le persone che hanno abbandonato la ricerca di lavoro, piuttosto che i lavoratori disposti ad una giornata completa di lavoro, il tasso di disoccupazione si situa intorno al 10%.
“In generale, i dati economici e finanziari dopo la nostra riunione di ottobre sono stati coerenti con i nostri tentativi di miglioramento continui del mercato del lavoro […] se [la Federal Reserve] ritardasse troppo l'inizio di una normalizzazione della sua politica, finiremmo senza dubbio per avere un inasprimento politico relativamente brusco da impedire che l'economia raggiunga e superi i nostri obiettivi”, giudicava Yellen all'inizio di dicembre 2015.
La Federal Reserve ha alzato le sue aspettative al 2,4% per l'anno prossimo, mentre la stima precedente era del 2,3%. Essa ha anche rivisto al ribasso le sue proiezioni della disoccupazione per il 2016, portandola al 4,7%, ossia al di sotto del 4,8% dell'anno precedente. Tuttavia, questo ottimismo occulta totalmente che la gran parte dei nuovi posti di lavoro è a tempo parziale nel settore dei servizi e che, nei settori dell'energia (soprattutto quelli legati agli idrocarburi) e nell'industria, al contrario, ci sono stati licenziamenti massicci. D'altra parte, anche se si constata un progressivo aumento delle retribuzioni, queste sono sempre insufficienti per creare altri aumenti significativi nei consumi e, ancora, sull'inflazione.
Come ci toccherà la decisione presa dalla Federal Reserve? Cosa accadrà all'economia mondiale? Il dollaro si è rivalutato appena un'ora dopo che la FED ha rialzato il tasso d'interesse dei fondi federali. I prezzi degli idrocarburi hanno toccato il fondo: il prezzo del barile del petrolio Brent ha raggiunto i 37,44 dollari, cioè 3,44 in meno che prima; mentre il prezzo del greggio della varietà West Texas Intermediate (WTI) è caduto del 4,81% per raggiungere i 35,56 dollari al barile.
Ciò è dovuto al fatto che i prezzi delle materie prime (commodities) si comportano in maniera inversamente proporzionale al corso del dollaro. Il rame, l'oro, il petrolio, l'argento, così come la maggior parte delle commodities, sono “finanziarizzati”. In altri termini, il loro valore monetario dipende in gran parte dalle fluttuazioni dei prezzi sui mercati dei prodotti derivati (in dollari). Inevitabilmente, le imprese esportatrici degli Stati Uniti avranno più difficoltà a piazzare i loro prodotti sul mercato mondiale (a causa della rivalutazione del dollaro). Dall'altro lato, le monete dei paesi emergenti andranno incontro ad un deprezzamento più pronunciato. Le loro esportazioni dovrebbero guadagnare in competitività (in seguito al deprezzamento delle loro monete), ma il problema è che in questo momento il commercio mondiale è ai più bassi livelli degli ultimi 30 anni. Per esempio, secondo le stime di Alicia Barena, segretaria economica esecutiva della Commissione Economica per l'America Latina e i Caraibi (CEPAL), tra il 2013 ed il 2015 le esportazioni latino-americane hanno raggiunto il peggiore livello degli ultimi 80 anni. Ciò è dovuto al fatto che non esistono paesi a cui vendere: infatti, anche la regione Asia-Pacifico è in grande rallentamento.
Di conseguenza, l'effetto negativo potrà essere osservato soprattutto nell'ambito della finanza; centinaia di miglia di dollari di capitali in portafoglio scapperanno dai paesi emergenti verso gli USA e in tal modo i mercati borsistici (dei paesi emergenti) subiranno grosse perdite, le loro monete saranno ancora più deprezzate e l'ammontare del debito estero aumenterà (calcolato in dollari).
“Il 2016 costituirà una sfida per i mercati emergenti in misura della caduta dei prezzi delle materie prime e la debole crescita del commercio mondiale aggraverà la recente esperienza della pressione sui conti pubblici e sulla bilancia dei pagamenti”, ha dichiarato al The Wall Street Journal il capo economista della Deutsche Bank, David Folkerts-Landau.
Di fronte a questa complicata situazione, sfortunatamente non c'è che da attendersi ulteriori grosse riduzioni della spesa pubblica da parte dei governi degli stati emergenti. Secondo le proiezioni di dicembre 2015, pubblicate dal CEPAL, la nostra regione ha chiuso l'anno 2015 con una contrazione del -0,4% del PIL e crescerà solamente dello 0,2% l'anno prossimo, registrando in tal modo uno dei risultati più modesti dal 2009. Ciononostante, una volta realizzati gli aggiustamenti di tipo neo-liberale richiesti dalla borghesia locale (tanto in Colombia e Messico che nei paesi retti da governi progressisti come il Brasile ed il Venezuela), la recessione sarà ancora più grave e, conseguentemente, l'espansione economica nella regione sarà molto più debole delle stime del CEPAL.
Questa crisi è ancora ben lontana dal finire…
Ariel Noyola Rodríguez, economista laureata all'Università Nazionale Autonoma del Messico (UNAM).
Twitter: @noyola_ariel
Fonte: http://reseauinternational.net
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