sabato 9 luglio 2016

IL METEO PRIVATO, INIZIA UNA NUOVA ERA?



Di Guido Guidi

La meteorologia è di più, molto di più dell’icona caratterizzante il tempo in un certo luogo e in un certo momento. Quello però, sia espresso in forma grafica più o meno gradevole o in forma numerica per scopi meno ludici ma spesso più pratici, è esattamente tutto quel che serve all’utente finale. Per arrivarci però, quanti si occupano di produrre e diffondere informazioni meteo, devono percorrere strade molto impervie. Strade fatte di conoscenza scientifica innanzi tutto, ma anche di ingenti quantità di risorse tecniche, tecnologiche e, naturalmente, economiche.


E’ questa la ragione per cui, praticamente da sempre, la meteorologia è pubblica, con ciò intendendo che le risorse e l’organizzazione del loro impiego, sono appunto pubbliche e non necessariamente costrette tra i confini nazionali, anzi, spesso, proprio per l’entità dello sforzo necessario, sono messe a sistema in consorzi di Stati. L’Europa, con gli esempi vincenti del Centro Europeo per le Previsioni a Medio Termine (ECMWF), dove si fa ricerca e si producono previsioni meteorologiche a scala globale, e di EUMETSAT dove si opera la costellazione dei satelliti meteorologici continentali, ha assunto da decenni un ruolo di leadership. Il modello globale dell’ECMWF, per esempio, è storicamente il più performante di tutti, compreso il suo diretto – si fa per dire – antagonista, il GFS americano.

In questa guerra tra modelli, che poi è una sana competizione scientifica, tecnica e logistica, le risorse private, almeno sin qui, non ci sono mai entrate. Certo, molti hanno fatto imprenditoria nel settore meteorologico, alcuni anche con grande successo ma, tutte queste operazioni alimentate da capitale privato, sono sempre intervenute partendo da un punto molto avanzato della filiera meteorologica, ovvero non occupandosi né di raccogliere e organizzare le osservazioni per alimentare i modelli, né di mettere a punto i modelli globali indispensabili a far girare quelli a più ridotta scala spaziale, da cui poi si ricava l’informazione finale, il prodotto. Nel settore privato, quindi, la concorrenza tra operatori – quelli più ‘seri’ usano tutti dati iniziali di buona qualità – è stata sin qui soprattutto sul versante dell’editing, della presentazione delle informazioni, della personalizzazione dei servizi e degli spazi mediatici occupati. Appunto, una pura operazione commerciale.

Tutto questo, stando a quanto dichiarato dalla Panasonic, ovvero dalla divisione Weather Solutions di questa multinazionale della tecnologia, potrebbe essere in procinto di

cambiare. Alcuni anni fa, infatti, la compagnia ha iniziato a produrre un sistema di monitoraggio dei parametri atmosferici da installare a bordo degli aerei di linea con lo scopo di raccogliere dati destinati ad aumentare la quantità e la precisione delle informazioni in tempo reale disponibili per fotografare l’atmosfera e aumentare la sicurezza nei cieli. Stazioni a terra, palloni per radiosondaggio, report (alquanto soggettivi) da navi ed aerei e, negli ultimi anni, anche dati provenienti da satellite, sono tanto, ma non tutto quello che serve perché la fotografia dello stato del tempo sul pianeta in un dato momento sia sufficientemente definita. E, da questa foto un po’ sgranata, da questa imperfetta conoscenza dello stato iniziale del sistema, dipendono molti degli errori nelle previsioni, al netto naturalmente di quanto dovuto allo stato dell’arte della scienza. Disporre di più dati, se opportunamente validati, sarebbe stato senz’altro un valore aggiunto. Così il programma ha preso piede dapprima negli Stati Uniti, poi, recentemente, anche per alcune tratte aeree in Europa e Asia, continuando a crescere tutt’ora ad un ritmo importante.

E’ stato così, spiegano sempre dalla Panasonic, che si sono resi conto che le informazioni aggiuntive garantite da queste innovative tecniche di osservazione – salita, discesa e percorrenza degli aerei attraversano in tre dimensioni l’atmosfera con molta più intensità di quanto non si possa fare con i radiosondaggi – hanno un potenziale economico molto importante. Si possono vendere, cosa che già fanno, ma soprattutto possono essere impiegate in un modello previsionale proprietario. Hanno quindi preso il core del modello globale americano GFS, vi hanno aggiunto codice e applicato cambiamenti e, soprattutto, hanno messo in piedi un sistema di assimilazione dei dati di analisi che a loro detta fa concorrenza a quello dei centri di calcolo del settore pubblico. Ora, dopo qualche anno di lavoro e di prove, dichiarano di aver per la prima volta ottenuto delle performance migliori degli altri modelli globali, compreso il primo della classe, appunto quello dell’ECMWF.

Questo almeno sembra si evinca dalle tecniche di misurazione delle performance modellistiche. Però, dicono a loro volta alcuni esperti sia indipendenti che appartenenti ai sistemi pubblici, sin qui si sono viste solo poche settimane di valutazione, un po’ poco per dichiarare di aver messo a punto il miglior modello delle previsioni del tempo del mondo. Forse, anzi, sicuramente visto che l’investimento è stato fatto, è solo questione di tempo e se ne saprà di più quando la compagnia – che già vende servizi di previsione dedicata per l’attività dei cicloni tropicali – sarà pronta a proporre sul mercato quella che, nell’antagonismo tra ECMWF e GFS, potrebbe essere davvero una ‘terza via’, ovvero una filiera di produzione alimentata con capitale privato. L’affare è grosso, molto più grosso di quanto si possa immaginare, soprattutto se si tiene conto del fatto che già ora, con piattaforme condivise e quindi con scarse possibilità di avere del valore aggiunto in termini anche di contenuto oltre che di lay-out, il meteo privato fattura cifre da capogiro.

Se funzionerà, ne sentiremo parlare e, tanto per restare in tema, è davvero difficile immaginare che impatto potrà avere sul variopinto mondo delle previsioni del tempo.

FONTE http://www.climatemonitor.it/?p=41746



LA NUOVA ERA E’ COMINCIATA!
Weather Derivatives

Le operazioni su weather derivatives tra finalità di copertura e speculazione,

In Italia la prima applicazione di derivati climatici è quella negoziata

nell’agosto 2003.… (articolo in italiano) LEGGI QUI


CRESCE IL MERCATO DEI “WEATHER DERIVATIVES”

Il tema del cambiamento climatico è di grande attualità ed è al centro dell’attenzione mondiale per gli effetti che potrebbe avere sulla popolazione del pianeta, sull’attività economica e sulla sussistenza stessa di milioni di persone. È anche attentamente seguito dai mercati finanziari, a causa degli impatti che il clima genera sui margini operativi delle imprese. Non si fa riferimento solo a eventi eccezionali, quali cicloni o uragani, ma anche a prolungati periodi di siccità piuttosto che di clima mite o rigido. Negli USA si stima che il prodotto interno lordo sottoposto al ‘rischio atmosferico’ vale oltre 5 miliardi di dollari.

Come già descritto tempo fa in questa stessa rubrica, è possibile coprirsi dai rischi ‘atmosferici’ attraverso contratti derivati denominati ‘weather derivatives’. Si tratta di contratti che prevedono pagamenti futuri determinati in funzione di eventi climatici o atmosferici. Il primo di cui si ha notizia venne stipulato nel 1996, quando Consolidated Edison acquistò un contratto a termine sull’energia elettrica, indicizzato alla temperatura di New York nell’agosto di quell’anno. In particolare, lo strike price del contratto prevedeva uno sconto nel caso di temperature meno calde del solito. In tal caso infatti la domanda di energia elettrica sarebbe stata inferiore alla previsioni, grazie al minor uso di condizionatori, il che avrebbe ridotto i margini per la società. Nel 1997 Enron stipulò un contratto simile con un gruppo di utilities americane. In quegli anni negli USA si guardava con attenzione alla corrente tropicale ‘El Niño’, un fenomeno ricorrente di surriscaldamento delle acque tropicali dell’oceano Pacifico; l’evento determinò un inverno particolarmente mite, con una minore domanda di gas metano per il riscaldamento e quindi minori margini di profitto per chi lo vende.

Un recente studio, “Risk Management and Firm Value: Evidence from Weather Derivatives” scritto da Francisco Pérez-Gonzàlez e Havong Yun, di prossima pubblicazione sul ‘Journal of Finance’, una delle più prestigiose riviste scientifiche a livello mondiale, documenta che il 90% dei contratti di ‘weather derivatives’ riguarda proprio il business dell’energia. Le variabili che vengono misurate per determinare il payoff del contratto sono i CDD e gli HDD (rispettivamente ‘cooling degree days’ e ‘heating degree days’) ovvero la differenza (positiva o negativa) della temperatura giornaliera misurata in un certo luogo rispetto ai 65°F (ovvero 18,3°C), soglia che convenzionalmente definisce il fabbisogno minimo di energia per il riscaldamento o raffrescamento. Il payoff del contratto generalmente dipende dal numero di giorni in cui, durante un arco temporale in un certo luogo, la temperatura giornaliera ha superato la soglia predefinita in termini di degree days.

Sul Chicago Mercantile Exchange (CME) dal 1999 sono disponibili weather derivatives quotati, relativi alla temperatura misurata in più di 50 città mondiali (che si estendono anche ad eventi quali uragani, neve, gelo), ma la maggior parte delle transazioni fino a poco tempo fa è avvenuta privatamente, over the counter. Il rapporto si è invertito nel 2012, con l’arrivo delle norme del ‘Dodd-Frank Act’, che ha introdotto rilevanti adempimenti per chi sottoscrive questi contratti, determinando una ‘migrazione’ verso i futures scambiati in Borsa.

Addirittura, negli USA esiste un’associazione, la Weather Risk Management Association (WRMA) che raggruppa 40 imprese di 12 nazioni diverse (l’Italia non è fra queste), impegnate a diffondere la conoscenza sui weather derivatives e a proporne una standardizzazione. Secondo l’associazione, il valore del mercato mondiale di questi contratti ha ormai superato i 12 miliardi di dollari, con tassi di crescita annuali a due cifre. In Europa il mercato di riferimento è quello francese, dove sono diverse le utilities che ricorrono ai derivati sul clima. Oltre al business dell’energia, altri comparti dove questi contratti potrebbero apportare vantaggi sono quelli dell’agricoltura e delle energie alternative. Il clima infatti ha effetti rilevanti sulla coltivazione di cereali, ma anche su vento e pioggia, ovvero i ‘combustibili’ rispettivamente di eolico e idroelettrico. La Banca Mondiale ha recentemente assistito lo stato del Malawi, la cui popolazione è spesso danneggiata da siccità e carestie, nella stipula di weather derivatives per proteggersi dal rischio di raccolti agricoli insufficienti. Gli effetti del tempo atmosferico sono così pervasivi sulle attività umane che persino gli incassi dei cinema (oltre che ovviamente del turismo) sono fortemente correlati alla piovosità e ai giorni di bel tempo.

Lo studio condotto dai due accademici americani dimostra che le imprese del settore energetico che fanno ricorso a questi contratti con funzioni di hedging (ovvero copertura dal rischio operativo legato agli eventi climatici) ottengono una migliore valutazione dal mercato, hanno più margini per ricorrere al debito per finanziarsi e vantano più alti investimenti in conto capitale.

Certamente si tratta di un comparto in crescita; assicurazioni e banche d’affari stanno assumendo persone e strutturando team dedicati sul tema. Insomma, bel tempo stabile per i weather derivatives.



Figura: Open interest relativo ai principali weather derivatives scambiati sul Chicago Mercantile Exchange. Fonte: www.cmegroup.com

Giancarlo Giudici


http://www.nogeoingegneria.com/

http://www.borsaitaliana.it/

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