Maurizio Blondet
Dal sito dell’ammirevole maestro Giuseppe Sandro Mela recupero una notizia che m’era sfuggita. La rivista Oil Price, 5 luglio 2016. Is Russia Winning The Oil Export War Against The Saudis?, , oltre a comunicare che la Russia è riuscita ad aumentare le sue esportazioni di greggio nonostante le sanzioni e tutti i tentativi di toglierle i mercati europei, dà un altro dato, a suo modo sensazionale:
“A dispetto del pregiudizio secondo cui la Russia esporta soprattutto materie prime, le statistiche ci raccontano un’altra storia. Nel 2015, la quota di esportazioni non-petrolifere ha superato il 50 per cento del totale”, mentre nello steso tempo è diventata il maggior esportatore mondiale di greggio, superando l’Arabia Saudita.
E cosa esporta la Russia? Armamenti, ma non solo; impianti e macchinari, engineering, programmi IT, gioielleria, fertilizzanti minerali, persino – udite – prodotti agricoli. Il risultato delle sanzioni che la UE e Washington hanno imposto sulla vendita i russi di generi alimentari, hanno prodotto questo risultato.
Le aziende private russe hanno imparato ad proporsi sui mercati esteri; noi non ce ne accorgiamo, perché quei mercati di sbocco sono soprattutto Cina, India, estremo oriente asiatico – zone che crescono del 6-8% l’anno, mercati molto più interessanti dell’eurozona che declina. La cosa interessante è che questo non è un fenomeno spontaneo; è il risultato di una precisa volontà di Stato, che affianca le imprese russe – spesso eccellenti ma non famose per la loro intraprendenza nel business – con un ente appositamente creato per rispondere alle sanzioni occidentali e altri comportamenti ostili tendenti ad isolarlo: il Russia Export Center. Lo scopo è stato quello di ridurre la dipendenza russa dalle esportazioni di materia prime, come spiega il direttore di questo Center, Pyotr Fradkov, allo Russia and India Report.2016-06-24. Non-oil exports from Russia over 50 percent: Fradkov
Mela: “il Russian Export Centre è un’unica entità che coordina e promuove l’export russo. Mentre prima gli esportatori dovevano rivolgersi ad una congerie di enti e Ministeri, adesso c’è uno “sportello unico”, che semplifica a tutti la vita, snellisce tutte le procedure burocratiche. E cosa non da poco, dimostra come tutto l’export di una potenza mondiale possa essere coordinato da un centinaio di burocrati altamente preparati e selezionati con cura”.
Le riserve valutarie russe sono salite in sei mesi da 370,2 miliardi di dollari a 391,1.
Il vecchio esempio tedesco
Ciò non è senza evocare la centralizzazione e promozione del commercio estero che attuò il Terzo Reich, per superare le sanzioni anglo-americane e, soprattutto, la paralisi degli scambi internazionali dovuta alla Grande Depressione, e la scarsità di oro (che allora era l’essenziale moneta negli scambi con l’estero). Il Reich adottò un sistema più autoritario di quello adottato da Putin: gli importatori germanici dovevano fornirsi di un’autorizzazione della Banca Centrale per l’acquisto di divise estere; anche se tutto fu presto facilitato da accordi con gli esportatori, che quelle divise avevano e mettevano a disposizione. Non che potessero rifiutarsi…ma il controllo dei commerci e dei capitali, che l’Urss bolscevica attuò con ferocia che sappiamo, letteralmente distrussero l’economia russa, e i produttori (sterminandoli) – in Germania invece, funzionò.
Dal 22 marzo 1934, per legge, viene assoggettato a controllo il commercio estero e “la formazione e distribuzione di scorte di materie prime e semilavorati” per l’industria tedesca (dipendente da fuori per quasi tutto, salvo il carbone e un po’ di ferro), attraverso speciali uffici di vigilanza (Ueberwachungsstellen); ne nascono subito 11, ciascuno specializzato in un settore merceologico, una delle azioni di uno di questi uffici è, fino al primo luglio1934, proibire l’import di materie prime tessili, rame e pelli. Solo tre mesi dopo, il 30 giugno, viene creato il commissariato unico per le materie prime, che coordina tutte le attività dei suddetti uffici, e “deve determinare le possibilità di sostituzione delle materie prime nazionali a quelle estere”: Per questo scopo, ovviamente, presto l’attività di controllo, dal commercio, si estende alla produzione: l’analisi delle materie di produzione nazionale e la loro sostituibilità lo richiede – immaginate con quale competenza concentrata. Il 24 ottobre ’34 è di fatto instaurato il monopolio statale sul commercio estero.
Esso è basato su quattro principii. 1) “Autorizzare l‘import solo in misura della disponibilità delle divise per pagarle, e avendo di mira la loro riduzione”. 2) “Comprare da chi compra” le merci tedesche, pareggiando gli scambi: è il germe del commercio estero per baratto, senza esborso di dollari e sterline. 3) “Ridurre, fino a tendere ad annullarle, le importazioni di materie prime, se destinate a produzioni di consumo”, e 4) “dilatare con ogni mezzo le
esportazioni”.Hjalmar Schacht
Sono tutte eresie rispetto alla dogmatica liberista, già allora diffusa dalle centrali anglo-americane. Hjalmar Schacht, l’ariano d’onore, già banchiere centrale, che il partito fa suo ministro dell’Economia (agosto ’34), fa di peggio: vieta la concorrenza interna fra imprese tedesche; la nuova Germania non può permettersi la “distruzione creativa” celebrata dal liberismo, è uno spreco, e non vuole aderire al dogma liberista globale della “Interdipendenza”, dove tutti gli stati si specializzano nel loro rispettivo “vantaggio competitivo” e acquistano dall’estero le merci in cui non hanno tale ‘vantaggio’ – ciò conduce i paesi a “sacrificare la loro moneta e la loro indipendenza economica, che non si può mai separare da quella politica”.
Quello è lo scopo del liberismo globalizzato, condizionare politicamente le nazioni.
Schacht ordina che le imprese affini entrino i consorzi obbligatori (nel marzo ’34 sono già 11) e giunge a proibire la formazione di nuove imprese che giudica inutili rispetto al piano organizzativo generale. “Le importazioni devono essere preventivamente autorizzate” dagli uffici , “tenendo anche conto dell’equilibrio degli scambi coi paesi da cui devono provenire.
“Sono naturalmente le importazioni destinate a sostenere il lavoro produttivo quelle che hanno la precedenza. Tra il 1932 e il 1935 il valore delle derrate alimentari importate scende da 1.528 a 1.41 milioni di marchi; quello dei prodotti manifatturati, da 727 a 565 milioni; mentre quello di materie prime e semilavorati, necessari all’industria, sale da 2.412 a 2.553 milioni di marchi”. La necessità di non chiudere le porte ai paesi che importano di più dalla Germania viene regolamentata da Schacht: il cotone non si compra più dagli Usa ma da Argentina, Brasile, Turchia; la lana non più dall’Australia ma dall’Argentina, e così via.
Questo, per la riduzione dell’import. Ma quanto alla intensificazione dell’export? Oltre alla promozione attiva delle merci germaniche, Schacht attua geniali trucchi finanziari per agevolare gli esportatori (talora le merci tedesche sono più care dei prezzi dei mercati internazionali). Si tenga conto che già prima dell’avvento del Reich., nel luglio 1932, la Germania aveva strappato dai paesi stranieri una moratoria sui suoi enormi debiti di guerra ed esteri, che comprendeva un rinvio dei pagamenti di capitale e d’interessi. Tuttavia, il debitore tedesco era tenuto a pagare le sue quote di debito; ma non direttamente agli stranieri, bensì alla Deutsche Diskontobank– era questa che pagava al creditore straniero gli interessi sui debiti congelati. E come? Per metà in divise estere, per l’altra metà i “certificati in marchi bloccati” che si potevano spendere solo in Germania, e si sarebbero rimborsati in moneta solo a lunga scadenza. Per questo la finanza speculativa americana (che li chiamava Scrips) assetata (come sempre) di liquidità, li vendeva a prezzi svalutati fino al 50% sui mercati finanziari, Londra e Wall Street; e a ricomprarli a questi prezzi era il governo tedesco (ossia Schacht), alleggerendosi con lo sconto del suo debito per interessi, e facendo approfittare del guadagno gli esportatori. Stessa procedura con altri titoli di debito (Funding Bonds) che la Germania aveva dato ai creditori americani nel 1935, come liquidazione di altri titoli scaduto; anch’essi si svalutavano perché erano pagabili a scadenze lontane, il Reich li riscattava così a sconto dalle borse Usa, e “riversava agli esportatori il guadagno delle operazioni”. Fu varata anche un’imposta del 2-4% che le industrie che erano cresciute grazie alla prodigiosa espansione del mercato interno (il rilancio economico nazista) dovevano pagare per un fondo che serviva a sovvenzionare le industri esportatrici che ne avevano necessità.
Funzionò? La Germania era stata sempre ai primi posti come esportatrice di macchinari e impianti, in concorrenza con Usa e Regno Unito: nel 1936 sale al primo posto (29,8 di questo mercato, contro il 28,2 degli Stati Uniti e il 22,1% della Gran Bretagna. Nel 1936 il totale dei salari operai risulta salito a 35 miliardi di marchi, contro i 25,7 del 1932; il valore della produzione , a 65 miliardi rispetto ai 34,8 del ’32.
La bilancia commerciale è già in attivo nel 1934, per 284 milioni di marchi; nel ’35 scende un poco, a 101; nel 1036 arriva a 550 milioni. Il debito pubblico verso l’estero, che il Reich aveva trovato nel ’33 a 19 miliardi di marchi, nel ’36 è calato a 11,5.
I disoccupati che il regime trova, 5,6 milioni nel ’32, nel 1934 sono calati a 2,7; nel ’36 sono 1,6 milioni; nel 1937 – in Usa, è l’anno tragico della ricaduta nella Grande Depressione, il fallimento del New Deal – i senza-lavoro sono 900 mila, cifra men che fisiologica su una popolazione di 65 milioni. Contemporaneamente, gli occupati salgono dai 13 milioni nel 1933 ai 17,1 milioni nel ’36; nel ’37 salgono a 18,4. In quell’anno, l’indice della produzione industriale, fatto 100 quello del 32, è 220: più che raddoppiato in cinque anni. Il capitale interno, abbondante, è fornito dagli stessi lavoratori – col risparmio, che è incoraggiato e cresce.
Tutto ciò con una stabilità dei prezzi al consumo che si manterrà stabile persino durante la guerra. Come fecero? Non voglio togliervi il piacere di scoprirlo nel volume Autarchia nel Terzo Reich, di Autori Vari, Ed. Thule, 174 pagine, 20 euro, da cui ho preso alcuni dei dati che ho riferito; si tratta di testi dell’epoca.
Se li rievoco qui non è solo per mostrare come la Russia di Putin stia ricalcando (molto più all’acqua di rose) alcuni dei metodi che portarono al successo economico il Reich. Né solo per provocare frenetiche convulsioni di rabbia ai lettori ultraliberisti globali, anche se ammetto che questa è una parte non piccola del piacere della provocazione. E’ che ho la profonda convinzione che queste capacità e organizzazioni, che abbiamo abbandonato e dimenticato per adottare il pensiero unico della interdipendenza globale, saremo presto costretti a recuperarle.
Naturalmente tutta la dottrina, il sapere, la “scienza” economica vigente dicono: no, no; anche se la globalizzazione conosce reazioni e difficoltà crescente, non è possibile “tornare indietro” (verso ripiegamenti nel senso di isolazionismo, localismo, dirigismo) “non più di quanto si possa ri-trasformare una zuppa di pesce in un acquario di pesci vivi”, come dice un pur intelligente analista.
Quando imploderà il sistema
No, credete? E’ sempre più forte l’aspettativa di un collasso epocale del sistema del capitalismo detto “terminale”, basato sul capitale finanziario speculativo; esso consiste, alla massima semplificazione, nel fatto che il capitale strappa la massima retribuzione, a spese della minima retribuzione del lavoro; e offre alle masse consumiste, per mantener alti i loro consumi (superflui) nonostante il calo dei redditi, sempre nuovi prestiti, su cui estrae nuovi profitti finanziari. Così tutto il sistema attuale, i nostri consumi “globali” compresi, poggia su montagne di debiti – che non possono più essere onorati. Come si vede dalle banche italiane, che hanno accumulato crediti inesigibili per i noti e famigerati 360 miliardi. Ma le banche tedesche non sono meglio: tanto è vero che adesso anche il capo economista di Deutsche Bank, notoriamente gonfia di derivati (anch’essi in ultima analisi, debiti tossici) per 13 volte il Pil tedesco, invoca un bail-out (accollato ai contribuenti) di 150 miliardi per le banche europee (attenzione: non un bail-in, a spese degli azionisti) come fosse un qualunque Renzi, Patuelli o altro italiota. Altrimenti si rompe la zona euro, collassa l’economia globale eccetera. Lorsignori sono nel panico, e non sanno come fare.
Sapremmo fare altrettanto?
Voi come vi immaginate tale collasso? Io me lo immagino pressappoco come la bancarotta pubblica, anzi catene di bancarotte ; la volatilizzazione della moneta che avete in tasca, un ritorno caotico alla lira, colpita da deprezzamento fulminante e inarrestabile; ma soprattutto, la sparizione del credito. L’Italia è un paese fallito, mantenuto in vita dai tassi zero della BCE; ha un debito ormai pari al 137% del Pil, cioè di quello che produce; in situazione di collasso globale, chi ci farà credito per comprare grano e petrolio, banane e caffè e minerali per l’industria? Compriamo tutto a credito, oggi: anche gli amati smartphone e i desideratissimi tablet e computer, le vacanze alle Maldive, le auto che non sono più Fiat ma Nissan e Kia, i frigoriferi che non sono più Indesit ma Asus e Samsung, il necessario e il superfluo. Non abbiamo più il negozietto all’angolo; siamo circondati da mega-ipermercati, due su tre esteri – è alla grande distribuzione che affidiamo le nostre speranze di mangiare; e domani potremmo trovare gli scaffali del nostro supermercato semivuoti, con pochi prodotti o nessun prodotto – già succede in Venezuela – perché anche la grande distribuzione vive a credito, e che interesse c’è a fare credito alla distribuzione di un paese con milioni di disoccupati senza reddito? Chi sarà ancora disposto, esigerà interessi proibitivi.
Un paese sarà ridotto a contare sulle sue risorse interne – palesemente inadeguate alla autosufficienza; rivivificare le attività industriali e agricole abbandonate perché “non-competitive”; a studiare metodi di crescita delle produzioni nazionali sostitutive; a risparmiare la scarsa valuta pregiata, scegliendo oculatamente cosa comprare e cosa no, sceverando severamente il superfluo dal necessario, secondo criteri di rigorosa competenza e di bene comune – insomma quella politica economica di controllo e centralizzazione, dirigista e tendenzialmente autarchica, che attuarono il Reich e anche l’Italia fascista. Ciò, s’intende, a patto che fossimo allora così fortunati da avere un governo dotato di quelle competenze, senso di solidarietà nazionale e preoccupazione del bene comune – e non la burocrazia irresponsabile e ladra, costosissima e profittatrice, dilapidatrice e incompetente che oggi sgoverna l’Italia, incapace di tutto tranne di spogliarla.
http://www.maurizioblondet.it/
Sono tutte eresie rispetto alla dogmatica liberista, già allora diffusa dalle centrali anglo-americane. Hjalmar Schacht, l’ariano d’onore, già banchiere centrale, che il partito fa suo ministro dell’Economia (agosto ’34), fa di peggio: vieta la concorrenza interna fra imprese tedesche; la nuova Germania non può permettersi la “distruzione creativa” celebrata dal liberismo, è uno spreco, e non vuole aderire al dogma liberista globale della “Interdipendenza”, dove tutti gli stati si specializzano nel loro rispettivo “vantaggio competitivo” e acquistano dall’estero le merci in cui non hanno tale ‘vantaggio’ – ciò conduce i paesi a “sacrificare la loro moneta e la loro indipendenza economica, che non si può mai separare da quella politica”.
Quello è lo scopo del liberismo globalizzato, condizionare politicamente le nazioni.
Schacht ordina che le imprese affini entrino i consorzi obbligatori (nel marzo ’34 sono già 11) e giunge a proibire la formazione di nuove imprese che giudica inutili rispetto al piano organizzativo generale. “Le importazioni devono essere preventivamente autorizzate” dagli uffici , “tenendo anche conto dell’equilibrio degli scambi coi paesi da cui devono provenire.
“Sono naturalmente le importazioni destinate a sostenere il lavoro produttivo quelle che hanno la precedenza. Tra il 1932 e il 1935 il valore delle derrate alimentari importate scende da 1.528 a 1.41 milioni di marchi; quello dei prodotti manifatturati, da 727 a 565 milioni; mentre quello di materie prime e semilavorati, necessari all’industria, sale da 2.412 a 2.553 milioni di marchi”. La necessità di non chiudere le porte ai paesi che importano di più dalla Germania viene regolamentata da Schacht: il cotone non si compra più dagli Usa ma da Argentina, Brasile, Turchia; la lana non più dall’Australia ma dall’Argentina, e così via.
Questo, per la riduzione dell’import. Ma quanto alla intensificazione dell’export? Oltre alla promozione attiva delle merci germaniche, Schacht attua geniali trucchi finanziari per agevolare gli esportatori (talora le merci tedesche sono più care dei prezzi dei mercati internazionali). Si tenga conto che già prima dell’avvento del Reich., nel luglio 1932, la Germania aveva strappato dai paesi stranieri una moratoria sui suoi enormi debiti di guerra ed esteri, che comprendeva un rinvio dei pagamenti di capitale e d’interessi. Tuttavia, il debitore tedesco era tenuto a pagare le sue quote di debito; ma non direttamente agli stranieri, bensì alla Deutsche Diskontobank– era questa che pagava al creditore straniero gli interessi sui debiti congelati. E come? Per metà in divise estere, per l’altra metà i “certificati in marchi bloccati” che si potevano spendere solo in Germania, e si sarebbero rimborsati in moneta solo a lunga scadenza. Per questo la finanza speculativa americana (che li chiamava Scrips) assetata (come sempre) di liquidità, li vendeva a prezzi svalutati fino al 50% sui mercati finanziari, Londra e Wall Street; e a ricomprarli a questi prezzi era il governo tedesco (ossia Schacht), alleggerendosi con lo sconto del suo debito per interessi, e facendo approfittare del guadagno gli esportatori. Stessa procedura con altri titoli di debito (Funding Bonds) che la Germania aveva dato ai creditori americani nel 1935, come liquidazione di altri titoli scaduto; anch’essi si svalutavano perché erano pagabili a scadenze lontane, il Reich li riscattava così a sconto dalle borse Usa, e “riversava agli esportatori il guadagno delle operazioni”. Fu varata anche un’imposta del 2-4% che le industrie che erano cresciute grazie alla prodigiosa espansione del mercato interno (il rilancio economico nazista) dovevano pagare per un fondo che serviva a sovvenzionare le industri esportatrici che ne avevano necessità.
Funzionò? La Germania era stata sempre ai primi posti come esportatrice di macchinari e impianti, in concorrenza con Usa e Regno Unito: nel 1936 sale al primo posto (29,8 di questo mercato, contro il 28,2 degli Stati Uniti e il 22,1% della Gran Bretagna. Nel 1936 il totale dei salari operai risulta salito a 35 miliardi di marchi, contro i 25,7 del 1932; il valore della produzione , a 65 miliardi rispetto ai 34,8 del ’32.
La bilancia commerciale è già in attivo nel 1934, per 284 milioni di marchi; nel ’35 scende un poco, a 101; nel 1036 arriva a 550 milioni. Il debito pubblico verso l’estero, che il Reich aveva trovato nel ’33 a 19 miliardi di marchi, nel ’36 è calato a 11,5.
I disoccupati che il regime trova, 5,6 milioni nel ’32, nel 1934 sono calati a 2,7; nel ’36 sono 1,6 milioni; nel 1937 – in Usa, è l’anno tragico della ricaduta nella Grande Depressione, il fallimento del New Deal – i senza-lavoro sono 900 mila, cifra men che fisiologica su una popolazione di 65 milioni. Contemporaneamente, gli occupati salgono dai 13 milioni nel 1933 ai 17,1 milioni nel ’36; nel ’37 salgono a 18,4. In quell’anno, l’indice della produzione industriale, fatto 100 quello del 32, è 220: più che raddoppiato in cinque anni. Il capitale interno, abbondante, è fornito dagli stessi lavoratori – col risparmio, che è incoraggiato e cresce.
Tutto ciò con una stabilità dei prezzi al consumo che si manterrà stabile persino durante la guerra. Come fecero? Non voglio togliervi il piacere di scoprirlo nel volume Autarchia nel Terzo Reich, di Autori Vari, Ed. Thule, 174 pagine, 20 euro, da cui ho preso alcuni dei dati che ho riferito; si tratta di testi dell’epoca.
Se li rievoco qui non è solo per mostrare come la Russia di Putin stia ricalcando (molto più all’acqua di rose) alcuni dei metodi che portarono al successo economico il Reich. Né solo per provocare frenetiche convulsioni di rabbia ai lettori ultraliberisti globali, anche se ammetto che questa è una parte non piccola del piacere della provocazione. E’ che ho la profonda convinzione che queste capacità e organizzazioni, che abbiamo abbandonato e dimenticato per adottare il pensiero unico della interdipendenza globale, saremo presto costretti a recuperarle.
Naturalmente tutta la dottrina, il sapere, la “scienza” economica vigente dicono: no, no; anche se la globalizzazione conosce reazioni e difficoltà crescente, non è possibile “tornare indietro” (verso ripiegamenti nel senso di isolazionismo, localismo, dirigismo) “non più di quanto si possa ri-trasformare una zuppa di pesce in un acquario di pesci vivi”, come dice un pur intelligente analista.
Quando imploderà il sistema
No, credete? E’ sempre più forte l’aspettativa di un collasso epocale del sistema del capitalismo detto “terminale”, basato sul capitale finanziario speculativo; esso consiste, alla massima semplificazione, nel fatto che il capitale strappa la massima retribuzione, a spese della minima retribuzione del lavoro; e offre alle masse consumiste, per mantener alti i loro consumi (superflui) nonostante il calo dei redditi, sempre nuovi prestiti, su cui estrae nuovi profitti finanziari. Così tutto il sistema attuale, i nostri consumi “globali” compresi, poggia su montagne di debiti – che non possono più essere onorati. Come si vede dalle banche italiane, che hanno accumulato crediti inesigibili per i noti e famigerati 360 miliardi. Ma le banche tedesche non sono meglio: tanto è vero che adesso anche il capo economista di Deutsche Bank, notoriamente gonfia di derivati (anch’essi in ultima analisi, debiti tossici) per 13 volte il Pil tedesco, invoca un bail-out (accollato ai contribuenti) di 150 miliardi per le banche europee (attenzione: non un bail-in, a spese degli azionisti) come fosse un qualunque Renzi, Patuelli o altro italiota. Altrimenti si rompe la zona euro, collassa l’economia globale eccetera. Lorsignori sono nel panico, e non sanno come fare.
Sapremmo fare altrettanto?
Voi come vi immaginate tale collasso? Io me lo immagino pressappoco come la bancarotta pubblica, anzi catene di bancarotte ; la volatilizzazione della moneta che avete in tasca, un ritorno caotico alla lira, colpita da deprezzamento fulminante e inarrestabile; ma soprattutto, la sparizione del credito. L’Italia è un paese fallito, mantenuto in vita dai tassi zero della BCE; ha un debito ormai pari al 137% del Pil, cioè di quello che produce; in situazione di collasso globale, chi ci farà credito per comprare grano e petrolio, banane e caffè e minerali per l’industria? Compriamo tutto a credito, oggi: anche gli amati smartphone e i desideratissimi tablet e computer, le vacanze alle Maldive, le auto che non sono più Fiat ma Nissan e Kia, i frigoriferi che non sono più Indesit ma Asus e Samsung, il necessario e il superfluo. Non abbiamo più il negozietto all’angolo; siamo circondati da mega-ipermercati, due su tre esteri – è alla grande distribuzione che affidiamo le nostre speranze di mangiare; e domani potremmo trovare gli scaffali del nostro supermercato semivuoti, con pochi prodotti o nessun prodotto – già succede in Venezuela – perché anche la grande distribuzione vive a credito, e che interesse c’è a fare credito alla distribuzione di un paese con milioni di disoccupati senza reddito? Chi sarà ancora disposto, esigerà interessi proibitivi.
Un paese sarà ridotto a contare sulle sue risorse interne – palesemente inadeguate alla autosufficienza; rivivificare le attività industriali e agricole abbandonate perché “non-competitive”; a studiare metodi di crescita delle produzioni nazionali sostitutive; a risparmiare la scarsa valuta pregiata, scegliendo oculatamente cosa comprare e cosa no, sceverando severamente il superfluo dal necessario, secondo criteri di rigorosa competenza e di bene comune – insomma quella politica economica di controllo e centralizzazione, dirigista e tendenzialmente autarchica, che attuarono il Reich e anche l’Italia fascista. Ciò, s’intende, a patto che fossimo allora così fortunati da avere un governo dotato di quelle competenze, senso di solidarietà nazionale e preoccupazione del bene comune – e non la burocrazia irresponsabile e ladra, costosissima e profittatrice, dilapidatrice e incompetente che oggi sgoverna l’Italia, incapace di tutto tranne di spogliarla.
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