Dal tunnel della crisi c’è una sola uscita di sicurezza. Non è l’economia, ma qualcosa di ancora più importante: si chiama democrazia.
«L’alternativa alla società ordinata dal principio economico è la
società ordinata dal principio politico». Quindi, «l’alternativa al
capitalismo non è una nuova forma economica, ma una nuova forma politica: l’alternativa al capitalismo è la democrazia». Se infatti il capitalismo è in tilt, è solo dalla democrazia
che potrà nascerà la nuova funzione economica: «E’ solo dalla civiltà,
dalla civis, che può provenire l’emancipazione dalla barbarie». E’ la
conclusione a cui perviene Pierluigi Fagan,
esplorando la “fenomenologia dello spirito barbaro” che alimenta il
pensiero liberale. Punto di partenza: il carattere antisociale di
maxi-criminali finanziari come Bernard Madoff o di uomini super-potenti
come Lloyd Blankfein, “ceo” di Goldman Sachs. C’è chi li ritiene casi
umani, patologici, affetti da sindrome Adp, ovvero “disturbo antisociale
della personalità”.
In termini clinici: gli uomini al vertice delle élite mondiali soffrono di “incapacità di conformarsi alle norme”, sociali e democratiche.
Denotano “disonestà”, perché spesso “il soggetto mente e truffa gli altri”. Altre caratteristiche: “rifiuto di pianificare, aggressività, irresponsabilità verso gli altri, mancanza di rimorso”.
In questo, suggerisce Fagan, gli “eroi” della finanza mondiale assomigliano molto ai grandi pirati e corsari del ‘500 e del ‘600, da sir Francis Drake a Henry Morgan. Nell’indagine condotta da Richard Wilkinson e Kate Pickett, emergono le contraddizioni deflagranti delle società anglosassoni, quelle da cui proviene il “codice utopico” del moderno liberalismo, basato sull’antropologia dell’individualismo possessivo. Tra i paesi cosiddetti occidentali, elenco che include anche Israele e il Giappone, Stati Uniti e Gran Bretagna «sono sistematicamente in testa» per gli indicatori sociopatici: sfiducia verso il prossimo, minori percentuali di reddito devoluto agli aiuti internazionali, egoismo, mobilità sociale. Da record le percentuali di popolazione che soffre di disturbi mentali, consumo di droghe, obesità, disturbi del comportamento derivati da stress, gravidanze adolescenziali, omicidi, violenza e conflitti tra bambini, detenuti in carcere.
Il tutto, aggiunge Fagan, si interseca con la stabile leadership di Washington e Londra rispetto alla diseguaglianza sociale e dei redditi. L’antropologo di riferimento di questi popoli? E’ quel Thomas Hobbes per il quale la vita era «solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve». Per Fagan, è «l’esatta descrizione della trama sociale della storia degli anglosassoni», dalla cooptazione violenta del Galles sotto il dominio inglese fino alla guerra civile americana, passando per la convivenza forzata di Londra con la Scozia, «con permanente odio reciproco», e la feroce invasione dell’Irlanda. «L’America è nata sulla schiena degli schiavi», ha ricordato in una recente intervista Bob Dylan, secondo cui gli Stati Uniti non hanno mai superato l’eredità morale dello schiavismo, né quella del bagno di sangue tra il Nord e il Sud. Secondo Fagan, ad avere i piedi d’argilla è, fin dall’inizio, l’impianto sociale e filosofico dell’impero angloamericano. Se Hobbes propose il “contratto sociale” per superare la naturale entropia dei clan baronali e lo stato di natura, ovvero “la guerra di tutti contro tutti”, John Locke definì l’oggetto del contratto: difesa della libertà e della proprietà. Attenzione: è la libertà dai vincoli sociali, per consentire all’individuo di fare mercato. «Non è una libertà sociale, è una
libertà strettamente individuale. Con un simile contratto si stabilisce cosa non deve essere una società, non cosa può essere».
Vizi privati e pubblici benefici: è l’affresco che Bernard de Mandeville fornisce della società inglese del ‘700, «fondata sul cieco perseguimento degli egoistici interessi personali», in un mercato regolato solo dalla “mano invisibile” evocata da Adam Smith. Obiettivo: «Il far soldi, l’accumulare individualmente quanta più ricchezza è possibile», in un’esasperata competizione. Homo homini lupus: «Un regolamento che Max Weber poi chiamerà “spirito del capitalismo”, ovvero trasformazione mondana di un’etica della salvezza derivata da certo protestantesimo puritano e quindi “giustificata” anche dal principio religioso». Cultura, scienza, tecnica, razionalismo, empirismo e potenza individuale andranno al seguito. Chiaro anche il profilo giuridico-politico: una Costituzione “leggera”, «tutta garantista della libertà individuale e della sacralità dell’individualismo proprietario». La democrazia pura? Un pericolo, per l’americano James Madison. Meglio il prinicipio utilitaristico della società, enunciato da John Stuart Mill e Jeremy Bentham: “massima felicità, per il maggior numero”, dove la felicità è data dalla ricchezza dell’individuo. Non è un principio democratico: è la visione di una
«aristocrazia senza altra tradizione che non la proprietà in parte ereditata, in parte costruita in vita».
Lo stesso Weber, e più ancora Schumpeter, «si fanno meno scrupoli e dichiarano apertamente che il sistema migliore è quello delle élite, tra loro in competizione davanti al popolo-pubblico che attribuirà all’uno o all’altro il peso del governo dei Tutti». Curiosa motivazione: «Il popolo non sarebbe in grado di governare perché non sa le cose». Per questa china si arriva al ruolo dei leader carismatici, maestri in demagogia e manipolazione: fino alla “psicologia delle folle” sondata da Gustave Le Bon, di cui Mussolini era un ammiratore. «Democrazia e liberalismo – sostiene Fagan – si configurano come due regolamenti incommensurabili», decisamente incompatibili: «Sono la dicotomia prima della moderna teoria politica». Infatti la democrazia «è il primato sociale della politica e dell’uguaglianza nell’ambito politico», mentre il liberalismo «è il primato sociale dell’economia e dell’oligarchia nell’ambito politico determinato da quello economico». Il liberalismo di derivazione anglosassone «sopporta la società come forma calmierante gli eccessi di potenza, aggressività e competitività individuali», dice Fagan, «ma la obbliga ad ordinarsi solo rispetto alla
funzione del mercato, poiché è solo questo che l’individuo proprietario riconosce come regolamento a lui esterno».
Preceduti dall’americano Seymour Martin Lipset, che già negli anni ‘60 celebra la fine delle ideologie, la scomparsa della dicotomia destra-sinistra e l’avvento della “democrazia debole” (astensionismo elettorale, assenza di dibattito), irrompono i paladini del neoliberismo. Robert Nozick anticipa di un decennio la signora Thatcher: la società non esiste, perché «ci sono solo individui, individui differenti, con le loro vite individuali». E se non c’è la società, che senso ha lo Stato? Va smantellato, o comunque ridotto al minimo, a livello di semplice agenzia protettiva. L’austriaco Friedrich von Hayek, gran maestro di Mario Monti, ha il dono della chiarezza: se democrazia significa «il volere illimitato della maggioranza», l’economista ultraconservatore dichiara: «Non sono un democratico». Per Hayek, la giustizia distributiva e sociale non è altro che «la via della schiavitù». E se esiste solo il mercato, conviene tagliare tutto il welfare, i sindacati e il loro “paternalismo assistenziale”. Null’altro che spazzatura democratica: «Tutto va privatizzato e regolato dai flussi impersonali del mercato», il dio onnisciente che vigila sulla legge del più forte.
Il Marx storico e antropologo, dice Fagan, ci fornisce una acuta indagine capace di spiegare chi fossero davvero i popoli germanici, specie quelli dell’estremo Nord, ovvero proprio quei Sassoni e quegli Angli (ma anche i Frisoni, gli Juti e gli stessi Franchi), che poi migreranno violentemente verso le coste dell’isola britannica. Presso quei popoli, scrive Marx, «la comunità appare dunque come riunione, non come unione, come accordo i cui soggetti autonomi sono i proprietari fondiari». I Germani? «Vivono in famiglie e clan, dispersi nel territorio, lontani gli uni dagli altri, alle prese con una terra avara, un natura con la quale combattere, ossessionati dalla scarsità». Clan tribali «perennemente in guerra gli uni con gli altri, dilaniati da lunghe e complesse faide alle quali rinunciarono solo in favore di un principio di pagamento per i torti subiti, sublimando nel denaro l’atavica paura e sete di vendetta». Insomma, veri e propri
barbari, che nel loro retaggio «non hanno la polis, la res publica, la piazza, la cultura del discorso, la legge, l’arte».
Per Fagan, è lo stesso spirito che anima l’acuta analisi di Thorstein Veblen, americano di origine norvegese, che più di un secolo fa tracciò un profilo dell’“animale capitalistico”, protagonista dello storico saggio “La teoria della classe agiata”. Le famiglie potenti, a ben vedere, sono «clan dinastici, le cui ramificazioni collegano impresa, banca e finanza», mentre i singoli individui «perpetuano fedelmente la tradizione etica, politica e psicologica che contraddistingue gli aventi potere». Noi oggi le chiamiamo élites. Veblen è il primo a scoprire che l’accumulo di proprietà e di ricchezza non derivava dalla capacità di procurarsi il massimo conforto materiale, ma «da un certo spirito predatorio che ostentava la ricchezza per bisogno di considerazione (e financo invidia) sociale». Da qui quel peculiare fenomeno del “consumo esibitivo” come linguaggio che posiziona nel ranking della società competitiva: «Non più l’elsa della spada forgiata dai metallurgi sarmati, ma l’ultima versione dell’i-pad». Lo scalpo del successo, da esibire per essere “riconosciuti”.
«La competizione ossessiva era un torneo barbarico», aggiunge Fagan, e il costo della rivalità senza fine dei ricchi «era la miseria sempre più profonda dei poveri». Il tutto, «riquadrato in una potente fusione che amalgamava la cultura baronale degli antichi sassoni, con Adam Smith e la provvidenziale “mano invisibile”, sublimato infine nell’evoluzionismo spenceriano in cui la “guerra di tutti contro tutti” di Hobbes era diventata la lotta per la supremazia del più forte, celebrato come “migliore” e santificato dalla predestinazione puritana». L’etica e la morale, dal libertinismo cinquecentesco al materialismo hobbesiano, passando per la caparbia ignoranza del pensiero proveniente da Spinoza, avevano spianato la strada: «Una sorta di “fenomenologia dello spirito barbaro”». E’ proprio a questa
brutale concezione dell’esistenza che si oppone, dall’800, la civilizzazione dell’umanesimo socialista: è attribuita a Rosa Luxemburg l’espressione “socialismo o barbarie”, sebbene la stessa Luxemburg la riferisse ad Engels.
I barbari anglosassoni, osserva Fagan, irruppero in un medioevo parallelo a quello continentale succedendo alla longeva civiltà greco-romana. «Al lungo intermezzo medioevale, fece seguito la modernità che, nata in Italia e nel continente, trovò poi la sua forma tipica in Inghilterra con la Gloriosa Rivoluzione del 1688-89». Secondo Fagan i veri protagonisti erano sempre loro, i pronipoti dei barbari: scienza, tecnica, economia, finanza ed élite costruirono un nuovo sistema che ebbe molti meriti, al prezzo di altrettanti demeriti. In particolare, «il bisogno di alimentare l’ordine interno alle loro società e a quelle che sulla struttura del loro sistema si andarono piano piano a conformare (il continente si uniformò al nuovo sistema solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, resistendo tra Ancien Régime, potere della Chiesa romana, aristocrazia nobiliare, borghesia opportunista, fascismi vari, contadini e latifondisti conservatori alternativamente resistenti in precarie e variabili alleanze) soggiogando, sfruttando, rapinando tutto quanto fuori del loro perimetro di neo-civilizzazione». Oggi, di fronte dell’impetuosa crescita dell’Asia e del Sud America, senza contare l’ostinata diversità
del Medio Oriente e la prossima probabile emancipazione dell’Africa, questo imperialismo “barbarico” semplicemente non è più possibile.
L’umanità è ancora una volta di fronte a un bivio cruciale: socialismo o barbarie? Da una parte la decrescita, la civiltà, l’indipendenza, la sovranità. Dall’altra, il puro predominio delle élites, ultima micidiale reincarnazione dello spirito barbarico. Quello che abbiamo davanti agli occhi è «la non-società degli individui barbari basata sul principio del mercato, governata da élite espertocratiche, nella migliore delle ipotesi, se non da clan di sociopatici insicuri, bellicosi ed egoisti, da regimi di vita basati sull’esclusione e la competizione ossessiva». Per Fagan, l’unica possibile alternativa è «ciò che più di ogni altra cosa costoro hanno dimostrato di aver temuto», ovvero «la comunità riunita nell’autogoverno di se stessa: la democrazia». Nessuna via di mezzo: «Dal materialismo storico incarnato nel dominio del principio economico non si esce con un nuovo principio economico, ma con un principio di diversa natura». Un principio alternativo, «il più naturale per le comunità degli uomini sociali, ovvero dei cittadini (i viventi in polis), cioè la politica». Questa politica, conclude Fagan, «sarà il risultato del gioco componente di opinioni, interessi e volontà individuali: il gioco il cui regolamento è la democrazia», il “potere del popolo” così temuto dai barbari di ieri e di oggi.
http://www.libreidee.org/2013/05/barbari-sociopatici-profilo-dellelite-che-domina-il-mondo/
In termini clinici: gli uomini al vertice delle élite mondiali soffrono di “incapacità di conformarsi alle norme”, sociali e democratiche.
Denotano “disonestà”, perché spesso “il soggetto mente e truffa gli altri”. Altre caratteristiche: “rifiuto di pianificare, aggressività, irresponsabilità verso gli altri, mancanza di rimorso”.
In questo, suggerisce Fagan, gli “eroi” della finanza mondiale assomigliano molto ai grandi pirati e corsari del ‘500 e del ‘600, da sir Francis Drake a Henry Morgan. Nell’indagine condotta da Richard Wilkinson e Kate Pickett, emergono le contraddizioni deflagranti delle società anglosassoni, quelle da cui proviene il “codice utopico” del moderno liberalismo, basato sull’antropologia dell’individualismo possessivo. Tra i paesi cosiddetti occidentali, elenco che include anche Israele e il Giappone, Stati Uniti e Gran Bretagna «sono sistematicamente in testa» per gli indicatori sociopatici: sfiducia verso il prossimo, minori percentuali di reddito devoluto agli aiuti internazionali, egoismo, mobilità sociale. Da record le percentuali di popolazione che soffre di disturbi mentali, consumo di droghe, obesità, disturbi del comportamento derivati da stress, gravidanze adolescenziali, omicidi, violenza e conflitti tra bambini, detenuti in carcere.
Il tutto, aggiunge Fagan, si interseca con la stabile leadership di Washington e Londra rispetto alla diseguaglianza sociale e dei redditi. L’antropologo di riferimento di questi popoli? E’ quel Thomas Hobbes per il quale la vita era «solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve». Per Fagan, è «l’esatta descrizione della trama sociale della storia degli anglosassoni», dalla cooptazione violenta del Galles sotto il dominio inglese fino alla guerra civile americana, passando per la convivenza forzata di Londra con la Scozia, «con permanente odio reciproco», e la feroce invasione dell’Irlanda. «L’America è nata sulla schiena degli schiavi», ha ricordato in una recente intervista Bob Dylan, secondo cui gli Stati Uniti non hanno mai superato l’eredità morale dello schiavismo, né quella del bagno di sangue tra il Nord e il Sud. Secondo Fagan, ad avere i piedi d’argilla è, fin dall’inizio, l’impianto sociale e filosofico dell’impero angloamericano. Se Hobbes propose il “contratto sociale” per superare la naturale entropia dei clan baronali e lo stato di natura, ovvero “la guerra di tutti contro tutti”, John Locke definì l’oggetto del contratto: difesa della libertà e della proprietà. Attenzione: è la libertà dai vincoli sociali, per consentire all’individuo di fare mercato. «Non è una libertà sociale, è una
libertà strettamente individuale. Con un simile contratto si stabilisce cosa non deve essere una società, non cosa può essere».
Vizi privati e pubblici benefici: è l’affresco che Bernard de Mandeville fornisce della società inglese del ‘700, «fondata sul cieco perseguimento degli egoistici interessi personali», in un mercato regolato solo dalla “mano invisibile” evocata da Adam Smith. Obiettivo: «Il far soldi, l’accumulare individualmente quanta più ricchezza è possibile», in un’esasperata competizione. Homo homini lupus: «Un regolamento che Max Weber poi chiamerà “spirito del capitalismo”, ovvero trasformazione mondana di un’etica della salvezza derivata da certo protestantesimo puritano e quindi “giustificata” anche dal principio religioso». Cultura, scienza, tecnica, razionalismo, empirismo e potenza individuale andranno al seguito. Chiaro anche il profilo giuridico-politico: una Costituzione “leggera”, «tutta garantista della libertà individuale e della sacralità dell’individualismo proprietario». La democrazia pura? Un pericolo, per l’americano James Madison. Meglio il prinicipio utilitaristico della società, enunciato da John Stuart Mill e Jeremy Bentham: “massima felicità, per il maggior numero”, dove la felicità è data dalla ricchezza dell’individuo. Non è un principio democratico: è la visione di una
«aristocrazia senza altra tradizione che non la proprietà in parte ereditata, in parte costruita in vita».
Lo stesso Weber, e più ancora Schumpeter, «si fanno meno scrupoli e dichiarano apertamente che il sistema migliore è quello delle élite, tra loro in competizione davanti al popolo-pubblico che attribuirà all’uno o all’altro il peso del governo dei Tutti». Curiosa motivazione: «Il popolo non sarebbe in grado di governare perché non sa le cose». Per questa china si arriva al ruolo dei leader carismatici, maestri in demagogia e manipolazione: fino alla “psicologia delle folle” sondata da Gustave Le Bon, di cui Mussolini era un ammiratore. «Democrazia e liberalismo – sostiene Fagan – si configurano come due regolamenti incommensurabili», decisamente incompatibili: «Sono la dicotomia prima della moderna teoria politica». Infatti la democrazia «è il primato sociale della politica e dell’uguaglianza nell’ambito politico», mentre il liberalismo «è il primato sociale dell’economia e dell’oligarchia nell’ambito politico determinato da quello economico». Il liberalismo di derivazione anglosassone «sopporta la società come forma calmierante gli eccessi di potenza, aggressività e competitività individuali», dice Fagan, «ma la obbliga ad ordinarsi solo rispetto alla
funzione del mercato, poiché è solo questo che l’individuo proprietario riconosce come regolamento a lui esterno».
Preceduti dall’americano Seymour Martin Lipset, che già negli anni ‘60 celebra la fine delle ideologie, la scomparsa della dicotomia destra-sinistra e l’avvento della “democrazia debole” (astensionismo elettorale, assenza di dibattito), irrompono i paladini del neoliberismo. Robert Nozick anticipa di un decennio la signora Thatcher: la società non esiste, perché «ci sono solo individui, individui differenti, con le loro vite individuali». E se non c’è la società, che senso ha lo Stato? Va smantellato, o comunque ridotto al minimo, a livello di semplice agenzia protettiva. L’austriaco Friedrich von Hayek, gran maestro di Mario Monti, ha il dono della chiarezza: se democrazia significa «il volere illimitato della maggioranza», l’economista ultraconservatore dichiara: «Non sono un democratico». Per Hayek, la giustizia distributiva e sociale non è altro che «la via della schiavitù». E se esiste solo il mercato, conviene tagliare tutto il welfare, i sindacati e il loro “paternalismo assistenziale”. Null’altro che spazzatura democratica: «Tutto va privatizzato e regolato dai flussi impersonali del mercato», il dio onnisciente che vigila sulla legge del più forte.
Il Marx storico e antropologo, dice Fagan, ci fornisce una acuta indagine capace di spiegare chi fossero davvero i popoli germanici, specie quelli dell’estremo Nord, ovvero proprio quei Sassoni e quegli Angli (ma anche i Frisoni, gli Juti e gli stessi Franchi), che poi migreranno violentemente verso le coste dell’isola britannica. Presso quei popoli, scrive Marx, «la comunità appare dunque come riunione, non come unione, come accordo i cui soggetti autonomi sono i proprietari fondiari». I Germani? «Vivono in famiglie e clan, dispersi nel territorio, lontani gli uni dagli altri, alle prese con una terra avara, un natura con la quale combattere, ossessionati dalla scarsità». Clan tribali «perennemente in guerra gli uni con gli altri, dilaniati da lunghe e complesse faide alle quali rinunciarono solo in favore di un principio di pagamento per i torti subiti, sublimando nel denaro l’atavica paura e sete di vendetta». Insomma, veri e propri
barbari, che nel loro retaggio «non hanno la polis, la res publica, la piazza, la cultura del discorso, la legge, l’arte».
Per Fagan, è lo stesso spirito che anima l’acuta analisi di Thorstein Veblen, americano di origine norvegese, che più di un secolo fa tracciò un profilo dell’“animale capitalistico”, protagonista dello storico saggio “La teoria della classe agiata”. Le famiglie potenti, a ben vedere, sono «clan dinastici, le cui ramificazioni collegano impresa, banca e finanza», mentre i singoli individui «perpetuano fedelmente la tradizione etica, politica e psicologica che contraddistingue gli aventi potere». Noi oggi le chiamiamo élites. Veblen è il primo a scoprire che l’accumulo di proprietà e di ricchezza non derivava dalla capacità di procurarsi il massimo conforto materiale, ma «da un certo spirito predatorio che ostentava la ricchezza per bisogno di considerazione (e financo invidia) sociale». Da qui quel peculiare fenomeno del “consumo esibitivo” come linguaggio che posiziona nel ranking della società competitiva: «Non più l’elsa della spada forgiata dai metallurgi sarmati, ma l’ultima versione dell’i-pad». Lo scalpo del successo, da esibire per essere “riconosciuti”.
«La competizione ossessiva era un torneo barbarico», aggiunge Fagan, e il costo della rivalità senza fine dei ricchi «era la miseria sempre più profonda dei poveri». Il tutto, «riquadrato in una potente fusione che amalgamava la cultura baronale degli antichi sassoni, con Adam Smith e la provvidenziale “mano invisibile”, sublimato infine nell’evoluzionismo spenceriano in cui la “guerra di tutti contro tutti” di Hobbes era diventata la lotta per la supremazia del più forte, celebrato come “migliore” e santificato dalla predestinazione puritana». L’etica e la morale, dal libertinismo cinquecentesco al materialismo hobbesiano, passando per la caparbia ignoranza del pensiero proveniente da Spinoza, avevano spianato la strada: «Una sorta di “fenomenologia dello spirito barbaro”». E’ proprio a questa
brutale concezione dell’esistenza che si oppone, dall’800, la civilizzazione dell’umanesimo socialista: è attribuita a Rosa Luxemburg l’espressione “socialismo o barbarie”, sebbene la stessa Luxemburg la riferisse ad Engels.
I barbari anglosassoni, osserva Fagan, irruppero in un medioevo parallelo a quello continentale succedendo alla longeva civiltà greco-romana. «Al lungo intermezzo medioevale, fece seguito la modernità che, nata in Italia e nel continente, trovò poi la sua forma tipica in Inghilterra con la Gloriosa Rivoluzione del 1688-89». Secondo Fagan i veri protagonisti erano sempre loro, i pronipoti dei barbari: scienza, tecnica, economia, finanza ed élite costruirono un nuovo sistema che ebbe molti meriti, al prezzo di altrettanti demeriti. In particolare, «il bisogno di alimentare l’ordine interno alle loro società e a quelle che sulla struttura del loro sistema si andarono piano piano a conformare (il continente si uniformò al nuovo sistema solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, resistendo tra Ancien Régime, potere della Chiesa romana, aristocrazia nobiliare, borghesia opportunista, fascismi vari, contadini e latifondisti conservatori alternativamente resistenti in precarie e variabili alleanze) soggiogando, sfruttando, rapinando tutto quanto fuori del loro perimetro di neo-civilizzazione». Oggi, di fronte dell’impetuosa crescita dell’Asia e del Sud America, senza contare l’ostinata diversità
del Medio Oriente e la prossima probabile emancipazione dell’Africa, questo imperialismo “barbarico” semplicemente non è più possibile.
L’umanità è ancora una volta di fronte a un bivio cruciale: socialismo o barbarie? Da una parte la decrescita, la civiltà, l’indipendenza, la sovranità. Dall’altra, il puro predominio delle élites, ultima micidiale reincarnazione dello spirito barbarico. Quello che abbiamo davanti agli occhi è «la non-società degli individui barbari basata sul principio del mercato, governata da élite espertocratiche, nella migliore delle ipotesi, se non da clan di sociopatici insicuri, bellicosi ed egoisti, da regimi di vita basati sull’esclusione e la competizione ossessiva». Per Fagan, l’unica possibile alternativa è «ciò che più di ogni altra cosa costoro hanno dimostrato di aver temuto», ovvero «la comunità riunita nell’autogoverno di se stessa: la democrazia». Nessuna via di mezzo: «Dal materialismo storico incarnato nel dominio del principio economico non si esce con un nuovo principio economico, ma con un principio di diversa natura». Un principio alternativo, «il più naturale per le comunità degli uomini sociali, ovvero dei cittadini (i viventi in polis), cioè la politica». Questa politica, conclude Fagan, «sarà il risultato del gioco componente di opinioni, interessi e volontà individuali: il gioco il cui regolamento è la democrazia», il “potere del popolo” così temuto dai barbari di ieri e di oggi.
http://www.libreidee.org/2013/05/barbari-sociopatici-profilo-dellelite-che-domina-il-mondo/
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