Nota di Rischio Calcolato: l’articolo che segue è tratto dalla versione on-line di Limes e copre molto bene sia gli aspetti politici che fiananziari che stanno facendo collassare l’economia Egiziana.
In Egitto, il secondo rimpasto di governo deciso dal presidente Morsi dall’inizio della sua presidenza era stato annunciato da tempo.
La nomina di nove nuovi ministri, tuttavia, si è rivelata una misura cosmetica che tenta di scaricare responsabilità di malgoverno e promuovere nuove fedeltà. Rimangono in sella, infatti, gli odiati ministri dell’Interno Mohamed Ibrahim e il premier Hisham Qandil. Sono stati scaricati, invece, tutti i responsabili dell’area economica impegnati nelle trattative col Fondo monetario internazionale.
I Fratelli musulmani (o Ikhwan) controllano direttamente, così, 10 dei 35 dicasteri, ma possono contare sull’appoggio di altre figure vicine al movimento islamico.
Come Alaa Abdel Aziz, professore di cinema nominato ministro della Cultura, il quale – pur non facendo parte della Fratellanza – dalle colonne del giornale del partito Giustizia e Libertà aveva criticato aspramente l’opposizione liberale. O come il neoministro delle Antichità Ahmed Eissa, esperto di reperti copti e islamici e membro del partito islamista moderato al-Wasat. Passano dalle fila del partito a quelle del governo, invece, il responsabile per l’Agricoltura Ahmed Gizawi, neoministro dell’Agricoltura, il capo delle Relazioni Estere Amr Darrag, al Ministero della cooperazione internazionale e della pianificazione, e il portavoce del partito Yehia Hamed, ora ministro degli Investimenti.
Un rimpasto annunciato, dunque, e richiesto da più parti. Da un lato, i salafiti del partito al-Nour e altri islamisti avevano espresso il proprio malcontento per la sostanziale esclusione dal governo nonostante siano gli ultimi alleati rimasti del presidente. Dall’altro, l’opposizione secolare chiedeva la testa di Qandil e la formazione di un governo di unità nazionale che includesse le forze liberali per superare il clima di tensione attuale. Una richiesta formale e dovuta, ma cui lo stesso Fronte nazionale di salvezza non credeva fino in fondo. Islamisti e “laici” hanno eroso gran parte dello spazio rimasto per un dialogo politico tra le parti che potesse placare i frequenti ma limitati scontri in strada tra sostenitori e oppositori del presidente.
Per ostinazione reciproca, debolezze e dinamiche interne ai due campi, né Morsi né il trio Baradei-Sabbahi-Moussa possono sconfessare l’intransigenza dimostrata negli ultimi mesi e iniziare a collaborare. Da una parte, infatti, l’opposizione è talmente debole e disorganizzata da essersi rintanata in un guscio di opposizione aprioristica. Incapace di formulare proposte politiche e alternative valide, le forze secolari si lasciano cavalcare dal malcontento delle strade e dalla crescente polarizzazione, invece di incanalarla a proprio vantaggio. Un accordo con i Fratelli musulmani, a questo punto, non verrebbe compreso e digerito neanche dalla base, che sconfesserebbe la debole leadership secolare e la lascerebbe sola nelle fauci del nemico.
D’altra parte, Morsi e i Fratelli hanno intrapreso da novembre in poi una guerra senza quartiere in tutti i centri del potere per consolidare il loro controllo sulle istituzioni: dal parlamento monco ai media, passando per sindacati e giudici, gli islamisti tentano, in nome della rivoluzione, di allungare i propri tentacoli sui centri nevralgici di ciò che rimane del vecchio regime. Lo fanno alternando colpi di mano e alleanze strategiche con personalità di secondo piano dell’èra Mubarak, prontamente riciclatesi per servire i nuovi padroni, o istituendo nuovi vincoli di fedeltà “neo-patrimoniali”. Figure non tradizionalmente vicine alla Fratellanza vengono infatti promosse a cariche importanti nella polizia, nell’esercito, nei media statali e nel governo in cambio della cieca e assoluta fedeltà ai dettami imposti dall’alto.
Gli Ikhwan si ritrovano così in una fase di transizione che li rende tanto più forti quanto più deboli. Da un lato, infatti, il movimento islamico rafforza la sua presa su quei centri di potere contestati dalla stessa opposizione, facendosi “regime” nel senso di controllo di norme e istituzioni. Dall’altro, perde ogni giorno parte del consenso popolare che l’ha spinto al potere. Ciò avviene per lo più nei grandi centri urbani disillusi dal messaggio islamista, mentre il mix di potere tradizionale, mediatico, lavoro sul territorio e alleanze familiari-tribali non è ancora stato scalfito nelle aree più rurali, specialmente dell’Alto Egitto.
Difficile per Morsi, dunque, fare dei passi indietro proprio in questo frangente,lasciando il fianco scoperto in un momento di traslazione delle basi di potere del movimento non ancora completato. Tanto più che lo stesso presidente sembrerebbe “combattere” una battaglia nella battaglia per rafforzare il suo controllo sul paese, sul governo e all’interno del proprio movimento. Non a caso, infatti, i primi annunci di un rimpasto avevano colto di sorpresa anche la Fratellanza musulmana, che chiedeva un governo pressoché monocolore e la sostituzione del premier ed è stata, invece, sistemata con soli tre ministeri in più.
Il rimpasto, come già detto, è servito a scaricare le responsabilità di malgoverno e, soprattutto, a promuovere nuove fedeltà sui due fronti più sensibili per Morsi: giustizia e negoziazioni con il Fondo monetario internazionale. Le figure più “logore” e meno disposte a continuare ad assecondare il dettato presidenziale sono state sostituite con personalità più partigiane e fedeli alla linea. Le pressioni incrociate di opposizione e Fratelli avevano portato alle dimissioni il 20 aprile scorso dell’ex ministro della Giustizia Ahmed Mekki, un giudice indipendente e fratello dell’ex vice presidente. Mekki, paladino dell’indipendenza del sistema giudiziario, è stato sostituito da Ahmed Soliman. Questi, che pure aveva criticato la dichiarazione costituzionale di Morsi, è a capo della fazione di giudici che supportano il procuratore generale Talaat Ibrahim – considerato dai critici una marionetta nelle mani della presidenza – e uno dei più acerrimi rivali di Ahmed El Zend, il presidente del Club dei giudici che non perde occasione per attaccare Morsi.
Le giustificazioni di Morsi sul rimpasto, che sarebbe servito a promuovere il merito e non l’appartenenza politica, sembrano deboli soprattutto alla prova della sostituzione del ministro del Petrolio Osama Kamal. Osannato al momento dell’insediamento del primo governo Qandil come un tecnico indipendente e seriamente impegnato nella lotta alla corruzione e all’inefficienza, Kamal ha per mesi proposto una drastica riforma del sistema dei sussidi energetici cui il governo destina ogni anno un terzo del proprio budget. Una misura necessaria per ridurre il debito e una delle riforme strutturali chieste dall’Fmi, ma continuamente posticipata per decisione dello stesso Morsi in modo da evitare la spirale inflazionistica e una rivolta dei poveri difficilmente gestibile politicamente. Kamal è stato così sostituito da Sherif Hadarra, altro uomo proveniente dalle aziende petrolifere statali – da gennaio era presidente della Egyptian General Petroleum Corporation – ma considerato molto vicino alla Fratellanza musulmana.
Proprio la scure del debito e delle trattative con il Fondo Monetario Internazionaleper un prestito di 4,8 miliardi di dollari – che sbloccherebbe aiuti per circa altri 15 miliardi – pesa sulle nuove nomine. Inizialmente previsto per la fine di novembre, l’accordo ai tavoli negoziali non è stato ancora raggiunto. Lo scorso 20 e 21 aprile l’ormai ex ministro delle Finanze Al Morsy Hegazi si era incontrato a Washington con Christine Lagarde e il governatore della Banca centrale egiziana Hisham Ramez per ridiscutere i requisiti necessari allo sblocco prestito. L’incontro ufficiale si era concluso con l’ennesima formulazione di rimando a nuovi prossimi appuntamenti: “Il lavoro continua per raggiungere un accordo e supportare il programma economico delle autorità egiziane nelle prossime settimane”.
In queste settimane Hegazy, uno dei principali negoziatori con l’Fmi, è stato sostituito da Abdel Monim, uno sconosciuto – a parere dei principali economisti egiziani – professore di economia all’Università di Al Azahr esperto di finanza islamica ed ex direttore del Centro di ricerca della Cairo International Islamic Investment and Development Bank. Un cambiamento simbolico nella squadra di governo, che sembra voler adeguare la sua prossima politica finanziaria allo sforzo di allineare la legge islamica con le attuali pratiche di investimento. Tra i principali pilastri della finanza islamica, in diffusione crescente nell’ultima decade, vi è il divieto di pagare e richiedere tassi d’interesse.
In realtà, finanza islamica o meno, la richiesta di prestito al Fondo rimane valida e il rimpasto in questo caso non solo ha reso ancora una volta evidente l’incapacità del governo di riconciliarsi con le diverse forze politiche, ma soprattutto ha confermato la forte instabilità politico-istituzionale che attraversa attualmente il paese. Ovvero, il primo spauracchio nella not-to-do list del Fondo monetario, che teme la fuga definitiva degli investitori stranieri.
Il primo luglio inizierà inoltre il nuovo anno fiscale egiziano. Il deficit di bilancio previsto per la chiusura è di 197,5 miliardi di lire egiziane (28,4 dollari), circa l’11,6% del pil, diversamente dal 10,4% atteso un anno fa. Il nuovo obiettivo per il 2013-2014 è ridurre il deficit al 9,6%, stando all’ultima bozza di budget presentata da Al Morsy Hegazi allo Shoura Council – la Camera alta del parlamento, a stragrande maggioranza islamista – poco prima di essere deposto. Un ulteriore obiettivo che il governo si è dato per la prossima finanziaria è quello di raggiungere 20 miliardi di dollari di riserve di moneta straniera. Contando però che negli ultimi due anni le riserve internazionali sono diminuite di 21,6 miliardi – passando dai 36 del gennaio 2011 ai 14,4 nella chiusura del mese di aprile – salvo importanti riforme strutturali, l’obiettivo sembra difficilmente raggiungibile.
Nel dibattito sul bilancio della scorsa settimana, inoltre, l’unica Camera rimasta in attivo del parlamento avrebbe dovuto votare una nuova legge sulle tasse. Un passo fondamentale per sbloccare il prestito del Fondo monetario. La discussione, invece, è stata rinviata in data da definirsi. La motivazione ufficiale è l’insufficienza di informazioni necessarie alla votazione, che il ministero delle Finanze non avrebbe provveduto a fornire. In realtà, una nuova legge sulle tasse era stata emanata il giorno immediatamente successivo in quello che era stato definito “l’auto-golpe” di Morsi, a novembre. La legge era però stata ritirata in meno di ventiquattr’ore, per evitare di gettare benzina sul fuoco in previsione delle grandi manifestazioni contro la dichiarazione costituzionale che dava al presidente poteri assoluti. Dopo gli scontri mortali di fronte al palazzo presidenziale, quelli seguiti all’anniversario della rivoluzione e la rivolta delle città del Canale contro il Cairo, data anche la mancanza delle forze di sicurezza nelle strade e gli scontri tra l’esercito e il ministero degli Interni, il governo non si è azzardato a emanare una legge sulle tasse che preleverebbe quel poco che è rimasto nelle tasche degli egiziani. Rispetto allo scorso anno l’inflazione è aumentata di due punti percentuali, con il pound egiziano in una caduta libera che non sembra intenzionata ad arrestarsi
L’immobilismo del governo Morsi-Qandil non sembra aver ricevuto una scossa,nonostante le nuove nomine. Entrambi occupati a tenere le redini non solo del paese, ma anche del loro stesso partito, hanno optato per una scelta che premiasse – più che i membri della Fratellanza, molti dei quali ignari fino all’ultimo dei nomi scelti – alcuni nuovi personaggi che, eletti senza appoggi importanti, rimangano disciplinati sotto l’ala del presidente e del premier.
Il nuovo ministro delle finanze Abdel Monim non fa eccezione. Nel suo discorso di incarico ha enunciato tre punti principali su cui si baserà il suo operato: primo, seguire le direttive di Qandil; secondo, assicurarsi l’approvazione del budget statale da parte dello Shoura Council; terzo, puntare sui bond islamici per il finanziamento di progetti pubblici e favorire “l’equità” rispetto agli strumenti di “debito”. Una delle prime misure che ha dichiarato di voler attuare è l’imposizione di un tetto massimo per i salari degli impiegati governativi, fissandolo ad un massimo di 35 volte il salario minimo garantito. Il calcolo è fattibile solo nel momento in cui si parla di minimo salariale per i dipendenti pubblici con contratto a tempo indeterminato (120 dollari), di fatto la stragrande minoranza dei lavoratori.
Per il resto del mondo del lavoro, il salario, seppur minimo, non è affatto garantito. E non sembra rientrare tra le priorità del “nuovo” governo, né tra le richieste avanzate dal Fondo monetario internazionale.
La nomina di nove nuovi ministri, tuttavia, si è rivelata una misura cosmetica che tenta di scaricare responsabilità di malgoverno e promuovere nuove fedeltà. Rimangono in sella, infatti, gli odiati ministri dell’Interno Mohamed Ibrahim e il premier Hisham Qandil. Sono stati scaricati, invece, tutti i responsabili dell’area economica impegnati nelle trattative col Fondo monetario internazionale.
I Fratelli musulmani (o Ikhwan) controllano direttamente, così, 10 dei 35 dicasteri, ma possono contare sull’appoggio di altre figure vicine al movimento islamico.
Come Alaa Abdel Aziz, professore di cinema nominato ministro della Cultura, il quale – pur non facendo parte della Fratellanza – dalle colonne del giornale del partito Giustizia e Libertà aveva criticato aspramente l’opposizione liberale. O come il neoministro delle Antichità Ahmed Eissa, esperto di reperti copti e islamici e membro del partito islamista moderato al-Wasat. Passano dalle fila del partito a quelle del governo, invece, il responsabile per l’Agricoltura Ahmed Gizawi, neoministro dell’Agricoltura, il capo delle Relazioni Estere Amr Darrag, al Ministero della cooperazione internazionale e della pianificazione, e il portavoce del partito Yehia Hamed, ora ministro degli Investimenti.
Un rimpasto annunciato, dunque, e richiesto da più parti. Da un lato, i salafiti del partito al-Nour e altri islamisti avevano espresso il proprio malcontento per la sostanziale esclusione dal governo nonostante siano gli ultimi alleati rimasti del presidente. Dall’altro, l’opposizione secolare chiedeva la testa di Qandil e la formazione di un governo di unità nazionale che includesse le forze liberali per superare il clima di tensione attuale. Una richiesta formale e dovuta, ma cui lo stesso Fronte nazionale di salvezza non credeva fino in fondo. Islamisti e “laici” hanno eroso gran parte dello spazio rimasto per un dialogo politico tra le parti che potesse placare i frequenti ma limitati scontri in strada tra sostenitori e oppositori del presidente.
Per ostinazione reciproca, debolezze e dinamiche interne ai due campi, né Morsi né il trio Baradei-Sabbahi-Moussa possono sconfessare l’intransigenza dimostrata negli ultimi mesi e iniziare a collaborare. Da una parte, infatti, l’opposizione è talmente debole e disorganizzata da essersi rintanata in un guscio di opposizione aprioristica. Incapace di formulare proposte politiche e alternative valide, le forze secolari si lasciano cavalcare dal malcontento delle strade e dalla crescente polarizzazione, invece di incanalarla a proprio vantaggio. Un accordo con i Fratelli musulmani, a questo punto, non verrebbe compreso e digerito neanche dalla base, che sconfesserebbe la debole leadership secolare e la lascerebbe sola nelle fauci del nemico.
D’altra parte, Morsi e i Fratelli hanno intrapreso da novembre in poi una guerra senza quartiere in tutti i centri del potere per consolidare il loro controllo sulle istituzioni: dal parlamento monco ai media, passando per sindacati e giudici, gli islamisti tentano, in nome della rivoluzione, di allungare i propri tentacoli sui centri nevralgici di ciò che rimane del vecchio regime. Lo fanno alternando colpi di mano e alleanze strategiche con personalità di secondo piano dell’èra Mubarak, prontamente riciclatesi per servire i nuovi padroni, o istituendo nuovi vincoli di fedeltà “neo-patrimoniali”. Figure non tradizionalmente vicine alla Fratellanza vengono infatti promosse a cariche importanti nella polizia, nell’esercito, nei media statali e nel governo in cambio della cieca e assoluta fedeltà ai dettami imposti dall’alto.
Gli Ikhwan si ritrovano così in una fase di transizione che li rende tanto più forti quanto più deboli. Da un lato, infatti, il movimento islamico rafforza la sua presa su quei centri di potere contestati dalla stessa opposizione, facendosi “regime” nel senso di controllo di norme e istituzioni. Dall’altro, perde ogni giorno parte del consenso popolare che l’ha spinto al potere. Ciò avviene per lo più nei grandi centri urbani disillusi dal messaggio islamista, mentre il mix di potere tradizionale, mediatico, lavoro sul territorio e alleanze familiari-tribali non è ancora stato scalfito nelle aree più rurali, specialmente dell’Alto Egitto.
Difficile per Morsi, dunque, fare dei passi indietro proprio in questo frangente,lasciando il fianco scoperto in un momento di traslazione delle basi di potere del movimento non ancora completato. Tanto più che lo stesso presidente sembrerebbe “combattere” una battaglia nella battaglia per rafforzare il suo controllo sul paese, sul governo e all’interno del proprio movimento. Non a caso, infatti, i primi annunci di un rimpasto avevano colto di sorpresa anche la Fratellanza musulmana, che chiedeva un governo pressoché monocolore e la sostituzione del premier ed è stata, invece, sistemata con soli tre ministeri in più.
Il rimpasto, come già detto, è servito a scaricare le responsabilità di malgoverno e, soprattutto, a promuovere nuove fedeltà sui due fronti più sensibili per Morsi: giustizia e negoziazioni con il Fondo monetario internazionale. Le figure più “logore” e meno disposte a continuare ad assecondare il dettato presidenziale sono state sostituite con personalità più partigiane e fedeli alla linea. Le pressioni incrociate di opposizione e Fratelli avevano portato alle dimissioni il 20 aprile scorso dell’ex ministro della Giustizia Ahmed Mekki, un giudice indipendente e fratello dell’ex vice presidente. Mekki, paladino dell’indipendenza del sistema giudiziario, è stato sostituito da Ahmed Soliman. Questi, che pure aveva criticato la dichiarazione costituzionale di Morsi, è a capo della fazione di giudici che supportano il procuratore generale Talaat Ibrahim – considerato dai critici una marionetta nelle mani della presidenza – e uno dei più acerrimi rivali di Ahmed El Zend, il presidente del Club dei giudici che non perde occasione per attaccare Morsi.
Le giustificazioni di Morsi sul rimpasto, che sarebbe servito a promuovere il merito e non l’appartenenza politica, sembrano deboli soprattutto alla prova della sostituzione del ministro del Petrolio Osama Kamal. Osannato al momento dell’insediamento del primo governo Qandil come un tecnico indipendente e seriamente impegnato nella lotta alla corruzione e all’inefficienza, Kamal ha per mesi proposto una drastica riforma del sistema dei sussidi energetici cui il governo destina ogni anno un terzo del proprio budget. Una misura necessaria per ridurre il debito e una delle riforme strutturali chieste dall’Fmi, ma continuamente posticipata per decisione dello stesso Morsi in modo da evitare la spirale inflazionistica e una rivolta dei poveri difficilmente gestibile politicamente. Kamal è stato così sostituito da Sherif Hadarra, altro uomo proveniente dalle aziende petrolifere statali – da gennaio era presidente della Egyptian General Petroleum Corporation – ma considerato molto vicino alla Fratellanza musulmana.
Proprio la scure del debito e delle trattative con il Fondo Monetario Internazionaleper un prestito di 4,8 miliardi di dollari – che sbloccherebbe aiuti per circa altri 15 miliardi – pesa sulle nuove nomine. Inizialmente previsto per la fine di novembre, l’accordo ai tavoli negoziali non è stato ancora raggiunto. Lo scorso 20 e 21 aprile l’ormai ex ministro delle Finanze Al Morsy Hegazi si era incontrato a Washington con Christine Lagarde e il governatore della Banca centrale egiziana Hisham Ramez per ridiscutere i requisiti necessari allo sblocco prestito. L’incontro ufficiale si era concluso con l’ennesima formulazione di rimando a nuovi prossimi appuntamenti: “Il lavoro continua per raggiungere un accordo e supportare il programma economico delle autorità egiziane nelle prossime settimane”.
In queste settimane Hegazy, uno dei principali negoziatori con l’Fmi, è stato sostituito da Abdel Monim, uno sconosciuto – a parere dei principali economisti egiziani – professore di economia all’Università di Al Azahr esperto di finanza islamica ed ex direttore del Centro di ricerca della Cairo International Islamic Investment and Development Bank. Un cambiamento simbolico nella squadra di governo, che sembra voler adeguare la sua prossima politica finanziaria allo sforzo di allineare la legge islamica con le attuali pratiche di investimento. Tra i principali pilastri della finanza islamica, in diffusione crescente nell’ultima decade, vi è il divieto di pagare e richiedere tassi d’interesse.
In realtà, finanza islamica o meno, la richiesta di prestito al Fondo rimane valida e il rimpasto in questo caso non solo ha reso ancora una volta evidente l’incapacità del governo di riconciliarsi con le diverse forze politiche, ma soprattutto ha confermato la forte instabilità politico-istituzionale che attraversa attualmente il paese. Ovvero, il primo spauracchio nella not-to-do list del Fondo monetario, che teme la fuga definitiva degli investitori stranieri.
Il primo luglio inizierà inoltre il nuovo anno fiscale egiziano. Il deficit di bilancio previsto per la chiusura è di 197,5 miliardi di lire egiziane (28,4 dollari), circa l’11,6% del pil, diversamente dal 10,4% atteso un anno fa. Il nuovo obiettivo per il 2013-2014 è ridurre il deficit al 9,6%, stando all’ultima bozza di budget presentata da Al Morsy Hegazi allo Shoura Council – la Camera alta del parlamento, a stragrande maggioranza islamista – poco prima di essere deposto. Un ulteriore obiettivo che il governo si è dato per la prossima finanziaria è quello di raggiungere 20 miliardi di dollari di riserve di moneta straniera. Contando però che negli ultimi due anni le riserve internazionali sono diminuite di 21,6 miliardi – passando dai 36 del gennaio 2011 ai 14,4 nella chiusura del mese di aprile – salvo importanti riforme strutturali, l’obiettivo sembra difficilmente raggiungibile.
Nel dibattito sul bilancio della scorsa settimana, inoltre, l’unica Camera rimasta in attivo del parlamento avrebbe dovuto votare una nuova legge sulle tasse. Un passo fondamentale per sbloccare il prestito del Fondo monetario. La discussione, invece, è stata rinviata in data da definirsi. La motivazione ufficiale è l’insufficienza di informazioni necessarie alla votazione, che il ministero delle Finanze non avrebbe provveduto a fornire. In realtà, una nuova legge sulle tasse era stata emanata il giorno immediatamente successivo in quello che era stato definito “l’auto-golpe” di Morsi, a novembre. La legge era però stata ritirata in meno di ventiquattr’ore, per evitare di gettare benzina sul fuoco in previsione delle grandi manifestazioni contro la dichiarazione costituzionale che dava al presidente poteri assoluti. Dopo gli scontri mortali di fronte al palazzo presidenziale, quelli seguiti all’anniversario della rivoluzione e la rivolta delle città del Canale contro il Cairo, data anche la mancanza delle forze di sicurezza nelle strade e gli scontri tra l’esercito e il ministero degli Interni, il governo non si è azzardato a emanare una legge sulle tasse che preleverebbe quel poco che è rimasto nelle tasche degli egiziani. Rispetto allo scorso anno l’inflazione è aumentata di due punti percentuali, con il pound egiziano in una caduta libera che non sembra intenzionata ad arrestarsi
L’immobilismo del governo Morsi-Qandil non sembra aver ricevuto una scossa,nonostante le nuove nomine. Entrambi occupati a tenere le redini non solo del paese, ma anche del loro stesso partito, hanno optato per una scelta che premiasse – più che i membri della Fratellanza, molti dei quali ignari fino all’ultimo dei nomi scelti – alcuni nuovi personaggi che, eletti senza appoggi importanti, rimangano disciplinati sotto l’ala del presidente e del premier.
Il nuovo ministro delle finanze Abdel Monim non fa eccezione. Nel suo discorso di incarico ha enunciato tre punti principali su cui si baserà il suo operato: primo, seguire le direttive di Qandil; secondo, assicurarsi l’approvazione del budget statale da parte dello Shoura Council; terzo, puntare sui bond islamici per il finanziamento di progetti pubblici e favorire “l’equità” rispetto agli strumenti di “debito”. Una delle prime misure che ha dichiarato di voler attuare è l’imposizione di un tetto massimo per i salari degli impiegati governativi, fissandolo ad un massimo di 35 volte il salario minimo garantito. Il calcolo è fattibile solo nel momento in cui si parla di minimo salariale per i dipendenti pubblici con contratto a tempo indeterminato (120 dollari), di fatto la stragrande minoranza dei lavoratori.
Per il resto del mondo del lavoro, il salario, seppur minimo, non è affatto garantito. E non sembra rientrare tra le priorità del “nuovo” governo, né tra le richieste avanzate dal Fondo monetario internazionale.
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