di Marco Della Luna
L’immigrato clandestino ghanese Mada Kabobo, già partecipe di un’insurrezione di clandestini in un centro di identificazione ed espulsione,
armato di un piccone, correndo lungo una via di Milano, colpisce 5
persone uccidendone 3. Qualche giorno dopo, un altro africano, nel
casertano, armato di una spranga, si mise a colpire all’impazzata i
passanti. Kabobo ha riferito di aver agito su istigazione di “voci cattive” e molti lo reputano un folle.
L’ipotesi della follia come spiegazione del suo gesto è ovvia, e va verificata.
Però vi è un’altra ipotesi da verificare: la possibilità che si tratti di un sacrificio umano, cioè di un atto magico, rituale – nel qual caso occorrerà ricercare i mandanti.
Azioni come quelle dei due suddetti africani corrispondono al
fenomeno noto come corsa amok (dal javanese meng amoak, corsa omicida),
descritto per la prima volta dal famoso Cap. Cook, ricorrente in diverse
culture tribali, e considerato come un sindrome propria di alcune
culture esotiche, soprattutto del Sud-Est asiatico. Il soggetto viene
preso da una furia omicida e attacco tutti quelli che incontra,
colpendoli con armi di ogni tipo, o col proprio autoveicolo. Alla fine
si arresta come spossato e viene colto da amnesie e abbattimento. Talora
l’azione è improvvisa, talaltra preparata anche per anni.
La sindrome della corsa amok, analoga al berserk anglosassone, è descritta dai manuali di psicopatologia come
una sindrome dissociativa e di perdita del controllo degli impulsi,
conseguente a sradicamenti esistenziali (perdita delle famiglia, del
lavoro, del contesto sociale – direi, anche a seguito di emigrazione in
un contesto del tutto diverso e alieno).
L’impresa di Kabobo potrebbe rientrare in questa sindrome, nel qual caso
il Kakobo andrebbe prosciolto (siccome non imputabile per vizio di
mente) e sottoposto a misura di sicurezza per qualche anno, poi liberato
se la sua pericolosità risulterà cessata.
Nei paesi di immigrazione, la criminologia scientifica ha da molto tempo
osservato che la perdita del contesto sociale, culturale, etico,
religioso, espone gli immigrati a un elevato rischio di perdita del
controllo dei propri impulsi e dei riferimenti morali, del senso del
bene e del male. Soprattutto si è visto che a ciò sono esposte le
seconde e le terze generazioni, perché le prime generazioni hanno ancora
un codice etico acquisito nel paese di origine, mentre i loro figli e
nipoti, anche se acquisiscono la cittadinanza mediante lo jus soli,
spesso non acquisiscono quel codice etico, non essendo cresciuti in quel
contesto, e non acquisiscono nemmeno quello della popolazione in cui
vivono, entro cui sono nati, non sentendosi identitariamente parte di
essa. Dunque da un lato le impostazioni razziste e discriminazioniste
sono ottuse e inutile, e dall’altro ci attendiamo un crescendo di
devianza da parte dei “nuovi italiani” nei prossimi decenni, di
dimensioni non ragguardevoli. Perciò meglio niente jus soli, altrimenti
non possiamo espellere quelli che sono da espellere, perché cittadini
per nascita.
L’altra possibilità, che è doveroso indagare da parte degli inquirenti, è che Mada Kabobo abbia eseguito un sacrificio umano.
I sacrifici umani sono molto presenti nelle tradizioni anche attuali
della sua area di provenienza, e in genere dell’Africa nera, sia come
sacrifici individuali, che di massa (sacrificio in massa dei
prigionieri, o dei carcerati). Molti rapporti riferiscono che essi sono
ancora oggi diffusamente praticati. Essi sono talora richiesti per i riti di passaggio, come condizione per essere ammessi a società segrete, come quelle, notissime, dei Mau Mau. Inoltre, uccidere un uomo non è un atto ispirato da malvagità, serve per impadronirsi della sua forza,
o per ottenere in cambio del suo sangue un aiuto dagli dei tribali per
la prolificità, per il raccolto, per la vittoria. I sacrifici umani si
compiono sia su membri della propria tribù, che su stranieri, che su
schiavi e detenuti (Dahomey). Vedasi la bibliografia in calce all’articolo.
Bisognerebbe valutare che valore sacrificale specifico abbia, per la
cultura di provenienza del Kabobo, l’uccisione di un bianco. Infatti,
per non poche culture tribali africane i bianchi non sono propriamente
umani, ma dèmoni (come spalla sua pelle ha scoperto più di una bianca
che ha sposato un africano ed è andata a vivere nella sua terra). Questo
fatto può rendere i bianchi (ma io non lo so) più o meno pregiati come
vittime sacrificali, o addirittura può cambiare il senso dell’ucciderli:
se sono dèmoni, allora li si uccide non a titolo di sacrificio, ma
perché sono malvagi e malefici.
I sacrifici sono sovente richiesti da stregoni che sono, al contempo, capi di sette o di comunità. Come
avvocato, ho avuto clienti che facevano i maghi di professione. Clienti
italiani. Questi mi segnalavano un’intensa attività di loro colleghi
africani, in Italia e in Africa, dediti alla magia nera, comprendente
sacrifici animali e umani. Mi dicevano che questi stregoni erano molto
obbediti e temuti dagli altri africani, che essi inducevano, con la
minaccia di severissimi castighi, a commettere crimini come spaccio e
furti, nonché alla prostituzione – ovviamente a scopo di lucro. A tal
fine, minacciavano di colpire i loro familiari mediante i poteri della
magia nera e mediante i loro sicari. Anche i miei clienti li temevano
molto. Mi dicevano che tali stregoni avevano grande potere e
influenza sugli immigrati presenti e futuri, ed erano anche loro a
tirare le fila del flusso migratorio in questione, al fine di espandere
la loro influenza e le loro fonti di reddito in Europa.
Gli inquirenti indaghino dunque possibili rapporti di Kabobo con organizzazioni criminali e settarie. La sua corsa amok potrebbe essere stata indotta e preordinata da suggestionatori professionali, quali sono maghi e stregoni.
Si sa che molti italiani, e non solo i c.d. negri, credono nella magia
nera. Il voodoo nasce in Africa. La potenza del pensiero magico è non
solo immensa, ma contagiosa e immortale… è la più grande delle magie. E
fa presa sui popoli.
Poi guardiamo le scene del taglio della gola di un soldato britannico a
Londra eseguito, al grido “Allà è grande!” da due cittadini britannici
di stirpe nero-africana, nati e cresciuti nel Regno Unito, suoi
cittadini, come quelli delle bombe nella metropolitana del 2004. Erano
integrati? Sì, avremmo detto tutti, finché non han fatto ciò che
sappiamo. Non erano integrati, bensì adattati superficialmente e
instabilmente (come quell’ingegnere nordafricano che anni fa nel mettere
una bomba alla Questura di Milano, se la fece scoppiare in mano,
perdendo mani e occhi, o come il maggiore medico psichiatra della base
dei marines in Texas che fece strage di commilitoni inneggiando sempre
al Dio di Maometto): dobbiamo distinguere tra integrazione effettiva e
adattamento funzionale al farsi accettare.
La matrice psichica di simili gesti ovviamente non è britannica né
yankee, ma legata a un fondo ancestrale che permane per una o due
generazioni. D’altra parte gesta di quel tipo non sono espressione della
pratica islamica, anche se questa può prescriverla in ben determinate
circostanze, ma di un fattore psicologico legato a certe aree
geo-antropologiche, o allo spaesamento del trapiantato. Fattore che però
ora si è messo a combinarsi con certi tratti dell’integralismo
islamico, del jihadismo.
Come osserva un mio amico, il kabobismo che si unisce al jihadismo su
larga scala tra le decine di milioni di immigrati da quelle aree, mette
davvero i brividi a chi non è pronto ad essere sacrificato.
Come vedete, ci sono molte domande e cose da accertare, in ambito
antropologico-culturale, e che hanno importanza pratica per la nostra
sicurezza, per la prevenzione di atti criminali dovuti a fattori che non
rientrano e non possono essere nemmeno immaginati, finché si resta
entro la nostra cultura e non ci si apre allo studio delle altre
culture, delle culture dei gruppi etnici che stiamo ricevendo tra di noi
in dosi molto massicce e con cui interagiamo sempre più strettamente.
Un’apertura che deve avvenire con rispetto non solo del metodo
scientifico,quindi evitando le grossolane generalizzazioni di gusto
biecamente razzista, ma anche nel rispetto dell’altro,
dell’antropologicamente diverso, senza incolparlo per reazioni a vicende
che lo colpiscono e lo vedono vittima di flussi migratori imposti da
dinamiche oltre il suo controllo, la sua volontà, la sua comprensione.
Dobbiamo soprattutto liberarci dalla pigra e provinciale aspettativa di
fondo, che tutte le persone, di qualsiasi cultura e provenienza,
condividano o debbano (imparare per legge a) condividere la nostra
logica, la nostra sensibilità, la stessa nostra percezione della realtà.
Vi sono popoli con mentalità e schemi completamente diversi, portati a
reazioni altrettanto diverse. Le variabili culturali sono ampie e ne
abbiamo diverse sotto gli occhi: per l’induista è orribile che noi
mangiamo la mucca, e per noi è orribile che i cinesi mangino cani e
gatti. Per noi l’infibulazione è un crimine e una causa di infiammazioni
e infezioni, ma per molte culture è indispensabile per potersi sposare
etc.; le stesse bambine la vogliono. E lo stupro? In Uganda è lecito, se
praticato su una lesbica al fine di guarirla dall’omosessualità. Si
chiama “stupro terapeutico”. E non parliamo della poligamia… come
possiamo rifiutarci di riconoscere legalmente il matrimonio con più
mogli, ormai? O i matrimoni combinati – noi, che ci estinguiamo perché
non facciamo più figli? Il diritto è in chi dà la vita, non in chi la
trattiene.
Insomma, dobbiamo pensare multiculturalmente, e perlomeno capire a quali
nuovi fattori dovremo adattarci, anche per decidere se restare o
emigrare anche noi, visto che resistere è pressoché impossibile,
oltreché politically incorrect.
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