martedì 15 settembre 2015

IL FETICISMO DELLE ARMI

«L’uomo ha forse il potere di commettere dei crimini?».
«Ma l’uomo di cui parlate è un mostro».
«L’uomo di cui parlo è quello della natura».
«È una belva feroce».
(D-A-F de Sade, Justine ovvero le disgrazie della virtù).

Alla mia cospicua collezione di insulti calunniosi manca quello di “lobbista venduto alle multinazionali delle armi”; è ora di provvedere! Cosa che faccio immediatamente ponendomi questa “filosofica” domanda: dire, come ha fatto il politically correct Presidente della prima potenza imperialistica del pianeta, che i cittadini americani devono temere più le armi da fuoco che i terroristi del famigerato Stato Islamico non significa attribuire a delle cose, alle armi appunto, una soggettività che esse ovviamente non hanno? In altri termini, sono le armi che sparano contro gli inermi cittadini o non è piuttosto il soggetto che le fa sparare per colpire il malcapitato di turno? Più che “filosofica” la domanda suona stupida, mi rendo conto; ma qui mi limito a prestare parole e concetti alla realtà.


L’ultrareazionario Donald Trump, candidato alla Presidenza degli Stati Uniti, che ovviamente difende la virile tradizione americana, ha detto che le armi non sparano da sole, e che chi le fa sparare contro la gente nei supermercati, nelle scuole e ovunque se ne offra l’occasione è un pazzo, esattamente come lo era Vester Lee Flanagan, il criminale della Virginia. Punto. Chi non è un ubriacone non fa abuso di alcol, e così chi non è folle non si mette a sparare sul primo che gli sta sulle scatole o che gli ricorda la cattiveria umana, le ingiustizie subite, le frustrazioni vissute e via di seguito con il lungo catalogo delle sventure. Cattiva, dice sempre il candidato repubblicano, non è l’arma in sé ma la persona che la impugna per commettere reati, omicidi e stragi. Non è che uno si mette a sparare sulla gente solo perché ha comperato un’arma: siamo seri! Ne segue che un giro di vite sulla libera vendita delle armi non risolverebbe il problema, almeno nei suoi termini essenziali. Tanto più che, come ricorda Francesco Semprini su La Stampa, «anche nelle città con leggi più restrittive sulla vendita e il possesso di pistole e fucili, come la capitale Washington DC e Chicago, i crimini a mano armata sono elevati».

Così ragiona l’antipatico Trump. Però qui almeno compare il soggetto, anche se nella sua versione “deviata” e mal riuscita. Sotto questo aspetto “la soggettiva” della mano di Flanagan che impugna la pistola e fa fuoco contro la vittima designata, l’ex collega Alison Parker, non poteva essere più significativa. Alla regia della terribile scena naturalmente c’è il soggetto non la cosa, la quale deve perdere quella centralità che in effetti non le spetta, se non a fini strumentali, per mistificare la natura del problema, così da offrire in pasto all’opinione pubblica, in primis a quella progressista, i produttori e i venditori di armi. I quali a loro volta ricordano ai politici del Congresso che parlano di «terrorismo domestico» per stigmatizzare la vendita indiscriminata di armi da fuoco il contributo che l’industria delle armi dà al PIL americano e all’occupazione.

«Intanto Walmart, la più importante catena di negozio al dettaglio degli Stati Uniti, ha annunciato che molto presto smetterà di vendere armi semi-automatiche, mentre continuerà ad esporre quelle da caccia. La motivazione ufficiale, secondo il portavoce, sarebbe di natura commerciale: il calo delle vendite» (il Giornale.it). Forse la logica del profitto può essere più convincente della logica dell’indignazione etica. Forse.

Bisogna forse attribuire la violenza razziale che non smette di fare vittime negli Stati Uniti (ultimamente soprattutto per responsabilità dei tutori dell’ordine) all’esistenza delle armi? Non è forse vero che «il sogno» di Martin Luther King, mezzo secolo dopo il noto discorso di Washington, rimane per l’essenziale tale? La società americana trasuda odio razziale e invidia sociale da tutti i pori, anche perché là dove il Capitalismo è più forte e radicato, più forti e radicate sono anche le contraddizioni sociali che rigano il corpo sociale. La fenomenologia di queste contraddizioni non conosce davvero limiti, letteralmente, come sanno bene anche medici, psichiatri, psicanalisti e meccanici del corpo e dell’anima d’ogni tipo.

E più il disagio sociale (anche detto “mal di vivere”) dilaga e si radicalizza, e più si moltiplicano i tentativi di arginarlo attraverso rimedi che sfiorano (?) il ridicolo, come quelli raccontati da Federico Rampini: «Non dite “straniero” ma “persona internazionale”. Vietati gli epiteti “obeso, sovrappeso”, da sostituire con “persone di dimensioni”. Guai a insinuare che “questo studente estero ha difficoltà di apprendimento della nostra lingua”. Va incoraggiato, quindi “si sta concentrando nell’imparare la lingua”. Benvenuti nella nuova Distopia degna di George Orwell: i campus universitari americani. Saranno pure le università migliori del mondo, ma l’autocensura “politically correct” del linguaggio raggiunge livelli preoccupanti. O esilaranti. […] Poi c’è la caccia alle cosiddette “micro-aggressioni” psicologiche, da mettere al bando. Esempio: se una ragazza entra in un ufficio dove figurano le foto dei fondatori dell’azienda, presidenti, amministratori delegati, e sono tutti maschi, lei subisce una micro-aggressione: il messaggio subliminale è che non farà carriera, in un’impresa maschilista. […] Le suscettibilità spuntano dove meno te l’aspetti. Guai a chiedere “dove sei nato” ad uno studente di origine ispanica o asiatica, è un modo per confinarlo nella sua condizione di immigrato o figlio d’immigrati. Perfino i complimenti – “bravo in matematica”, detto ad un asiatico – vengono denunciati come micro-aggressioni perché rafforzano gli stereotipi etnici. È vietato rilevare insufficienze e lacune di un alunno, se ne può parlare solo al positivo: altrimenti i genitori partono in guerra contro il sistema scolastico. Solo l’incoraggiamento è tollerato, mai il biasimo. I campus universitari trasformati in “zone emotivamente protette”, al contrario del mondo reale, sono l’ultima tappa di un fenomeno che nasce nelle scuole materne, alle elementari, alle medie» (La repubblica, 17 agosto 2015).

Insomma, ci si illude di poter contenere la rabbia, il disagio, l’odio, i pregiudizi e quant’altro con degli esorcismi, pardon: con delle “rivoluzioni culturali”. Le «zone emotivamente protette» non ci salveranno dalla violenza – visibile e invisibile – del Sistema, questo è sicuro; esse al più possono sperare di venir percepite dalla gente come il lato “buono” di una medaglia cattivissima, e soprattutto vogliono dirci che dal Male ci si può solo proteggere.

Che fare, allora? Ma anche: che pensare? Non dare per scontato che leggi meno permissive sulla vendita delle armi possano essere di una qualche utilità: già questo atteggiamento mentale ci può forse mettere nelle condizioni di porci le giuste domande intorno alla straripante violenza sistemica della società occidentale in generale, e della società americana in particolare. Domande del genere: il pazzo che impugna l’arma è l’eccezione che conferma la regola, o rappresenta piuttosto la regola che si fa eccezione mostrando così, a chi ha occhi per vedere, la sua vera natura? E ancora: folle è il criminale con il fucile a pompa che decide di vendicare qualche torto subito o solo paranoicamente immaginato («Ho tutto il diritto di essere arrabbiato», aveva detto Flanagan) prima di congedarsi prematuramente dal mondo dei vivi (in questi casi ci si suicida sempre troppo tardi!), o la società che ci fa tutti, “sani” e “pazzi”, a sua immagine e somiglianza? «Tutti? Ma che dici? Io non ammazzerei mai nemmeno una mosca!». Capisco l’obiezione del lettore, alla quale rispondo, forse peccando di fatalismo, che siamo tutti nelle mani del Caso, e che a tutti ci tocca vivere sulla ruota della fortuna. Ecco, il problema è appunto quello di capire come scendere da questa maledetta ruota.

Scrive Aldo Grasso: «Il dramma di Moneta, in Virginia, ci dice soltanto che un nuovo tabù è stato abbattuto, che un nuovo limite è stato infranto. Ovunque censurata e dissimulata, la morte sembra risorgere in tv nelle vesti dell’imprevisto o come offerta sull’altare delle emozioni. Le immagini condivise sui social dall’assassino sono tanto più terribili quanto più svuotate di qualsiasi sostanza etica: le atrocità crescono, ma nessuno vuol rinunciare a fornire il proprio contributo al patrimonio della ferocia umana» (Il Corriere della Sera, 27 agosto 2015). Ecco, piagnistei etici di questo tipo non aiutano a capire la reale dimensione della tragedia sociale dei nostri giorni, ma possono offrire a qualcuno un comodo alibi per sentirsi fuori dal coro, di non contribuire alla «ferocia umana». A proposito (e riprendendo “criticamente” il Divin Marchese): L’uomo di cui parlo è quello della società. Una società che acquista sempre più quei caratteri di mondo hobbesiano che allo scrittore-filosofo francese ricordavano la Natura.

Per Donald Trump si tratta di difendere il II Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti (Right to Bear Arms) e di mettere i “folli” nella condizione di non nuocere; per me si tratta di mettere questa Società-Mondo nella condizione di non poter nuocere più agli individui. Come? La risposta alla prossima puntata!Pubblicato in Derive autoritarie, Etica, Uncategorized

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