Ieri sono successe un paio di cosucce importanti, fuori dai nostri confini - e forse per questo quase ignorate dai giornali italiani, con poche eccezioni.
La prima è che l'Europarlamento ha votato sulla neutralità della Rete, di fatto decidendo che questa non ci deve essere, cioè autorizzando Internet a due velocità e quindi favorendo i big player.
Il tema secondo alcuni è palloso, tuttavia non si capisce bene perché per anni abbiamo contestato il duopolio televisivo e vigilato sull'assegnazione delle frequenze mentre ora ce ne scatafottiamo dell'oligopolio digitale on line.
La questione - per chi ne fosse digiuno - in sostanza è questa: gli operatori di telecomunicazione, che sono i gestori delle autostrade dell’informazione, devono far circolare tutti i dati alla stessa velocità e alle stesse condizioni o possono dirigere a piacimento il traffico, facendo correre alcuni pacchetti più velocemente di altri? Ad esempio, se una corporation di produzione di contenuti (poniamo, un grande editore multimediale) chiede a un provider di far passare più rapidamente i suoi video (e lo paga per questo) è giusto che acquisti questo diritto? Oppure, per un principio di pari opportunità dei contenuti, questi devono viaggiare alla stessa velocità?
Per capirci: come reagiremmo se da domani il codice della strada stabilisse che i gestori della Milano-Napoli possono costringerci ad accostare o a fermarci per dare la precedenza ad altri mezzi privati (non ambulanze, polizia etc) che hanno comprato quel diritto di sorpasso dai gestori stessi? E come reagiremmo se ci si spiegasse che questa gestione preferenziale del traffico è stata decisa perché il gestore possa fare più utili?
La questione riguarda non solo gli operatori di telecomunicazione, ma coinvolge anche i gestori delle grandi edicole virtuali, dei motori di ricerca e - da poco - anche dei produttori di smart-tv. Ci sono, al mondo, una manciata di soggetti (così pochi che potrebbero riunirsi attorno a un tavolo in una cena tra amici) che sono, allo stato, in grado di imporre agli oltre due miliardi e mezzo di naviganti una dieta informativa rigida, ferrea e quasi impossibile da tradire. Che cosa accadrebbe domani se gli operatori di telecomunicazione aprissero corsie preferenziali verso le pagine di alcuni produttori di contenuti a discapito di altri, se i gestori delle edicole virtuali praticassero condizioni di abbonamento più vantaggiose per l’acquisto di certi giornali rispetto ad altri o semplicemente ne posizionassero le copertine digitali in modo più visibile sulle loro vetrine rendendo le altre difficili da raggiungere?
È giusto e auspicabile lasciare che questioni di questo tipo siano governate esclusivamente dalle leggi del mercato, senza alcun contrappeso?
A proposito di quello che è successo ieri a Bruxelles, rimando ai post diMessora e di Chiusi.
Il secondo fatto accaduto ieri che vorrei segnalare (appare sulla prima pagina di Le Monde: quindi forse non è così privo di rilevanza) è che Apple ha annunciato i risultati della sua trimestrale, che come già le ultime è la migliore di sempre, con profitti di 48 miliardi di euro e un tesoretto in cassa di circa 186 miliardi di euro, pari al Pil del Portogallo. Anche Google non se la passa male: nel trimestre ha fatto ricavi per 18,7 miliardi di dollari e ha in cassa liquidità per 72,76 miliardi di dollari. Nel 2014 Amazon ha invece intascato 88,9 miliardi di dollari. E così via, non vado avanti.
Tutti molto bravi, questi big player del digitale. Io stesso uso con piacere i prodotti di tutte e tre le corporation citate. Non è quindi questione di demonizzarle o di sparare invettive. È questione invece, magari, di farsi qualche domanda.
Ad esempio, sul fatto che una tale concentrazione di capitali, di profitti e di liquidità non si era mai vista nella storia del capitalismo mondiale.
E anche sul fatto che questa gigantesca concentrazione di liquidità mette queste corporation in condizione di essere più potenti di molti Stati e di molte democrazie - e non sono sicurissimo che ciò non abbia a che fare con il contemporaneo varo di trattati commerciali internazionali che si impongono, appunto, sulle decisioni delle democrazie.
In più, aggiungerei che queste montagne infinite di cash nelle mani di poche aziende si vanno formando in un'epoca in cui proprio la tecnologia avanzata - sotto forma di intelligenza artificiale, robotizzazione e algoritmi - va gradualmente ma inesorabilmente riducendo il lavoro, l'occupazione, quindi il salario. In altre parole, l'automazione e gli algoritmi "staccano" la produzione di ricchezza dal lavoro umano. Si produce più ricchezza con meno lavoro: il che sarebbe un'eccellente notizia se poi questa ricchezza non finisse in pochissime mani, mentre il ceto medio resta in misura crescente disoccupato e quindi scivola nella povertà.
Un tema da niente, insomma: perfino l'Economist (mica il Manifesto) ha invitato i governi ad affrontare la tendenza in corso «before their people get angry», insomma prima che la gente si incazzi troppo.
Ecco, se esistesse in Italia e in Europa un "partito dell'uguaglianza" - o almeno per una minore diseguaglianza - forse questi sarebbero i primi temi di cui dovrebbe occuparsi.
di Alessandro Gilioli
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