giovedì 3 dicembre 2015

KISSINGER IL BOMBARDIERE


Come la diplomazia delle forze aeree divenne una tradizione genuinamente americana

Nell’Aprile del 2014, la ESPN ha pubblicato la foto (verdi sopra) di un duo improbabile: l’ambasciatore USA alle Nazioni Unite Samantha Power e l’ex consigliere per la sicurezza nazionale e Segretario di Stato Henry Kissinger, insieme alla prima di campionato Yankee-Red Sox. In una frizzante giornata primaverile, in giacca di lana, e godendo visibilmente della compagnia reciproca, sembravano agli occhi di tutto il mondo la versione geopolitica del 21° secolo di Katherine Hepburn e Spencer Tracey. Il contenuto della loro chiacchierata, tuttavia, non era d’amore ma di morte.



Samantha Power si è fatta un nome da giornalista come paladina dei diritti umani, vincendo un Pulitzer per il suo libro Un problema dall’inferno: L’America e l’era del genocidio. Avendo lavorato presso il Consiglio per la Sicurezza Nazionale prima di spostarsi alle Nazioni Unite, era considerata un influente “falco liberale” ” dell’era Obama. Era inoltre un astro nascente all’interno di un gruppo di intellettuali e policymaker, i quali credevano che la diplomazia americana non dovesse essere guidata solamente dalla sicurezza nazionale e da interessi economici, ma anche da ideali umanitari, in particolare la diffusione della democrazia e la difesa dei diritti umani.


La Power sosteneva da lungo tempo che gli Stati Uniti avessero la responsabilità di proteggere le popolazioni del mondo più vulnerabili. Nel 2011 ha giocato un ruolo cruciale nel convincere il Presidente Obama ad inviare forze aeree in Libia al fine di impedire massacri di civili da parte di truppe fedeli al dittatore Muhammar Gheddafi. Quella campagna portò alla morte del colonnello e al rovesciamento violento del suo regime, facendo della Libia uno “stato fallito” e sempre più un bastione per l’ISIS ed altri gruppi terroristici. Kissinger viene invece assimilato a quell’orientamento di realpolitik il quale ritiene che la potenza americana debba servire i propri interessi, anche se ciò significa sacrificare i diritti umani di altri.

Samantha Power, secondo l’ESPN, chiese scherzosamente a Kissinger se la sua fedeltà agli Yankees fosse “ in linea con una visione realista sul mondo”. La Power, accanita tifosa dei Red Sox, solo poco tempo fa aveva fallito nel convincere le Nazioni Unite a sostenere una campagna Usa di bombardamenti in Siria, così Kissinger non si potè trattenere dal risponderle con un’uscita delle sue. “Di certo”, disse, “potresti trovarti a fare cose più realistiche”. Era il suo modo di suggerirle di mollare i Red Sox per gli Yankees. “Un avvocato per i diritti umani”, lo rimbeccò la Power, riferendosi a se stessa in terza persona “ si innamora dei Red Sox, degli oppressi, di quelli che non possono vincere i campionati del mondo”.

“Ora gli oppressi siamo noi” rispose Kissinger, riferendosi ai risultati deludenti degli Yankees nella passata stagione. Durante il proprio mandato, Kissinger era rimasto coinvolto in tre dei genocidi che la Power menziona nel suo libro: i “campi della morte” di Pol Pot in Cambogia, che non ci sarebbero mai stati se egli non avesse sciaguratamente ordinato una campagna di bombardamenti durata quattro anni e mezzo in quel paese; i massacri indonesiani a Timor Est e quelli pakistani in Bangladesh, ad entrambi i quali Kissinger acconsentì.

Uno potrebbe pensare che la conoscenza da parte di entrambi delle politiche di Kissinger sotto i presidenti Richard Nixon e Gerald Ford, e degli orrori sorti da esse possano rovinare la loro conversazione, ma la loro chiaccherata fu vivace: “Se un tifoso degli Yankees e uno dei Red Sox vanno al “cuore di tenebra” [lo stadio ndr] per il primo game del campionato” commentò la Power “ ogni cosa è possibile”.

Ogni cosa ad eccezione, a quanto pare, del tirare fuori il paese dalla sua guerra senza fine.

Barack Obama ha annunciato solo di recente che le truppe Usa non avrebbero lasciato l’Afganistan molto presto, promettendo inoltre un maggiore impegno nel combattere lo Stato Islamico in Iraq e Siria, anche dispiegando in quest’ultima le prime truppe di terra. Infatti, il nuovo libro del reporter del New York Times Charlie Savage, Power Wars, suggerisce che vi siano state solo minime differenze sostanziali tra l’amministrazione di George W. Bush e quella di Obama, riguardo alle politiche di sicurezza nazionale o alle motivazioni legali per perseguire il rovesciamento delle dittature nel Grande Medio Oriente.

Henry Kissinger non è certamente l’unico responsabile per la degenerazione della sicurezza nazionale Usa in una mostruosità. Quella nazione ha avuto diversi amministratori. Ma il suo esempio ha attraversato i decenni– specialmente il suo deciso supporto ai bombardamenti come strumento di “diplomazia” e la sua militarizzazione del Golfo Persico –gettando una luce sinistra sulla strada che ci ha portato verso uno stato di guerra perpetua.

Dalla Cambogia…

Nei giorni dell’insediamento di Nixon nel gennaio del 1969, il consigliere per la sicurezza nazionale Kissinger chiese al Pentagono di attuare i suoi piani di bombardamento in Indocina. Il presidente uscente, Lyndon Baines Johnson aveva sospeso la sua campagna di bombardamenti sul Vietnam del Nord nella speranza di negoziare un cessate il fuoco bilaterale. Kissinger e Nixon erano desiderosi di riprenderli: un compito difficile, visto il supporto politico interno allo stop dei bombardamenti.

La successiva miglior opzione era: bombardare lungo i confini della Cambogia per distruggere le linee di supporto, i depositi e le basi nemiche che si supponeva vi fossero. Nixon e Kissinger inoltre credevano che un attacco simile potesse costringere Hanoi a fare delle concesisoni al tavolo negoziale. Il 24 febbraio, Kissinger e il suo assistente militare, il colonnello Alexander Haig, incontrarono il colonnello dell’aereonautica Ray Sitton, esperto di bombardieri B-52, per iniziare la pianificazione del “Menu”, il sinistro nome in codice dell’imminente campagna di bombardamenti.

Dato che Nixon fu eletto grazie alla promessa di mettere fine alla guerra in Vietnam, Kissinger riteneva non fosse sufficiente mettere l’operazione Menu nella categoria “top secret”. Vi era necessità di totale e assoluta secretazione, soprattuto verso il Congresso. Non c’erano dubbi sul fatto che il Congresso, decisivo per lo stanziamento dei fondi necessari per specifiche campagne militari, non avrebbe mai approvato una campagna di bombardamenti contro un paese neutrale che non fosse in guerra con gli Stati Uniti.

Kissinger, Haig e Sitton invece, escogitarono un raggiro ingegnoso. Su indicazioni del generale Creighton Abrams, comandante delle operazioni militari in Vietnam, Sitton avrebbe elencato gli obiettivi cambogiani da colpire, succesivamente li avrebbe sottoposti a Kissinger ed Haig per l’approvazione. In seguito, avrebbe reinviato le coordinte degli obiettivi a Saigon, dove un corriere li avrebbe consegnati alle stazioni radar, dalle quali l’ufficiale in servizio avrebbe, all’ultimo minuto, fatto deviare i B-52 dal Sud Vietnam verso gli obiettivi stabiliti in Cambogia.

In seguito, l’ufficiale [del radar ndr] avrebbe distrutto ogni mappa, supporto informatico, rapporto radar o qualunque altra traccia che avesse potuto rivelare gli obiettivi attuali. Abrams avrebbe in seguito testimoniato davanti al congresso che una “speciale stufa” fu allestita per eliminare i documenti. “ Bruciavamo probabilemente per 12 ore al giorno”. Si sarebbero in seguito preparati dei falsi documenti post-raid, per dimostrare come questi ultimi fossero diretti verso il Vietnam del Sud come pianificato.

Kissinger era molto coinvolto. “Colpisci qui in quest’area”, ricorda Sitton che gli fu detto da Kissinger, “o colpisci là in quell’area”. I bombardamenti galvanizzavano il consigliere per la sicurezza nazionale. Il primo raid ebbe luogo il 18 marzo del 1969. “K. era veramente eccitato” scrive nel uso diario Bob Haldeman, il responsabile dello staff di Nixon. “Venne (alla sala Ovale) raggiante, col report in mano”.

Di fatto, egli supervisionava ogni aspetto dei raid. Come scrisse in seguito il giornalista Seymour Hersh, “ Quando i militari presentavano un piano di bombardamenti, Kissinger poteva ridefinire la missione, spostando una dozzina di aerei, per esempio, da un’area a un’altra, e modificare le tempistiche dei raid… (Lui) sembrava divertirsi a dirigere i bombardieri”. (Quella gioia non si sarebbe limitata alla Cambogia. Secondo i reporter del Washington Post Bob Woodward e Carl Bernstein, quando alla fine il bombardamento del Vietnam del Nord riprese, Kissinger “espresse un entusiasmo grande come i crateri delle bombe”.) Un report del Pentagono pubblicato nel 1973 affermava che “Henry A. Kissinger approvò ognuno dei 3875 raid aerei in Cambogia nel 1969-70 – la fase più segreta dei bombardamenti – “cosi come i metodi per tenerli fuori dai giornali.”

Detto ciò, tra il 1969 e il 1973 gli Stati Uniti sganciarono mezzo milione di tonnellate di bombe nella sola Cambogia, uccidendo almeno 100.000 civili. Senza dimenticare il Laos e i due Vietnam. “Sono ondate su ondate di aerei. Vedi, loro non possono vedere i B-52 ed essi hanno sganciato un milione di libbre di bombe,” disse Kissinger a Nixon dopo il bombardamento della città portuale di Haiphong, nell’aprile del 1972, mentre provava a rassicurare il Presidente sul fatto che la strategia stesse funzionando: “ Potrei scommettere che tu hai avuto laggiù più aerei in un giorno di quelli che Johnson aveva in un mese… Ogni aereo può portare circa 10 volte il potenziale di un aereo della Seconda Guerra Mondiale”.

Mentre passavano i mesi, i bombardamenti non servirono a spingere Hanoi sul tavolo negoziale. Servirono, invece, ad aiutare Kissinger nelle sue rivalità tra uffici. La sua unica fonte di potere era Nixon, il quale era un sostenitore dei bombardamenti. Così Kissinger sfruttò il suo ruolo di “Primo Bombardiere” per mostrare all’ala dura militarista che il presidente si era messo a fianco uno che era il “falco dei falchi”. E dopo, alla fine, anche Nixon potè vedere che la campagna di bombardamenti era su un binario morto. “K. Abbiamo avuto dieci anni di totale controllo aereo in Laos e Vietnam”, scrisse lo stesso Nixon in un report top-secret sull’efficacia dei bombardamenti. “Risultati… zero” (Questo nel gennaio del 1972, tre mesi prima che Kissinger assicurasse Nixon che le “ondate su ondate” di bombardieri stessero ottenendo risultati”.

Durante questi quattro anni e mezzo nei quali gli Stati Uniti sganciarono più di 6 milioni di tonnellate di bombe nel Sud-est asiatico, Kissinger mostrava a se stesso di non essere il supremo realista politico, ma bensì un supremo politico idealista. Egli si rifiutò di mollare, quando si arrivò ad una politica che implicava il dare luogo al mondo nel quale lui credeva di essere, ad una realtà cioè, nella quale piegare al proprio volere, con la forza materiale degli Stati Uniti, dei poveri paesi contadini come la Cambogia, il Laos, e il Vietnam del Nord; questo in opposizione alla realtà nella quale lui effettivamente viveva, nella quale il suo potere di bombardare non potè costringere Hanoi a sottomettersi. Come affermò in quel periodo, “mi rifiuto di credere che una potenza di quart’ordine come il Vietnam del Nord non abbia un punto di rottura”.

Di fatto, quella campagna di bombardamenti ebbe un effetto straordinario: la destabilizzazione della Cambogia, che nel 1970 causò un golpe che ebbe come reazione un invasione americana nello stesso anno: quest’ultima ebbe l’effetto di allargare a tutto il paese la base sociale della ribellione, causando un’escalation dei bombardamenti, che vennero estesi all’intero paese, devastandolo e creando le condizioni per l’ascesa al potere della forza genocida dei Khmer Rossi.

…alla prima Guerra del Golfo

Dopo aver accettato, autorizzato o pianificato così tante invasioni — quella indonesiana a Timor Est, quella del Pakistan contro il Bangladesh, quella americana in Cambogia, Vietnam del Sud e Laos, e quella del Sud Africa in Angola — Henry Kissinger prese la prima decisione logica ai primi di agosto del 1990, dopo che Saddam Hussein mandò l’esercito iracheno contro il Quwait: [quella di] condannare l’aggressione. Lungo il proprio mandato, lavorò per fomentare le ambizioni regionali di Baghdad. Da consulente privato ed esperto, promosse l’idea che l’Iraq di Saddam Hussein potesse servire da temporaneo contrappeso alla rivoluzione iraniana. Ora sapeva ciò che era necessario fare: l’annessione del Quwait andava contrastata.

Il Presidente George H.W. Bush lanciò subito l’operazione Desert Shield , inviando un enorme quantità di truppe in Arabia Saudita. Ma una volta lì cosa avrebbero dobuto fare esattamente? Contenere l’Iraq? Attaccare e liberare il Quwait? Dirigersi a Baghdad e deporre Saddam? Non c’era consenso unanime tra analisti ed esperti. Eminenti conservatori, che si erano fatti un nome durante la guerra fredda, adesso davano dei consigli contraddittori.

Per esempio, l’ex ambasciatore alle Nazioni unite Jeane Kirkpatrick, era contraria ad ogni intervento contro l’Iraq. Non riteneva che Washington avesse un “interesse rilevante nel Golfo” ora che l’Unione sovietica si era dissolta. Altri conservatori, invece, osservavano che, dopo la fine della Guerra Fredda, importava poco se fossero i Baathisti Iracheni o degli sceicchi locali a sfruttare il petrolio del Kuwait, fin quanto esso sgorgava dal sotttosuolo.

Kissinger replicava a coloro che definiva i “nuovi isolazionisti” dell’America. Ciò che Bush farà successivamente in Quwait, scrisse nella prima frase di un articolo ampiamente discusso, rafforzerà o affosserà il suo mandato. Ogni cedimento nella liberazione del Quwait trasformerà la “prova di forza” di Bush in Arabia Saudita in una “debacle”.

Nel richiamare i colleghi conservatori riluttanti a lanciare una nuova crociata nel Golfo, in un linguaggio da Guerra Fredda al quale non mancava di aggrapparsi, insisteva sul fatto che i loro consigli fossero niente meno che un’”abdicazione”. Vi erano delle “conseguenze nella mancanza di opposizione”, insisteva Kissinger. Egli infatti è stato probabilmente il primo ad aver paragonato Saddam Hussein ad Hitler. Negli editoriali, nelle apparizioni televisive e nelle testimonianze davanti al Congresso, Kissinger sosteneva con forza l’intervento, compresa la “distruzione progressiva e chirurgica degli asset militari iracheni” e il rovesciamento del leader iracheno. “L’America ha passato il suo Rubicone” insisteva, e non si poteva tornare indietro.

Era ancora una volta l’uomo del momento. Ma come erano cambiate le attese dal 1970! Quando il presidente Bush lanciò i primi raid il 17 gennaio del 1991, egli era al centro dell’attenzione pubblica, sotto gli occhi di tutti. Non c’erano cortine di segretezza, documenti bruciati in stufe, o rapporti di volo manipolati. Dopo un dibattito di quattro mesi tra politici ed esperti, le “bombe intelligenti” illuminarono il cielo di Baghdad e di Kuwait City sotto le luci delle telecamere. Apparvero nuovi strumenti di visione notturna, comunicazioni satellitari in tempo reale, ed ex ufficiali pronti a raccontare la guerra nello stile dei commentatori di football in presa diretta. “Nel linguaggio della cronaca sportiva” disse il conduttore della CBS News Dan Rather la prima notte dell’attacco, “Questo…non è sport. E’ guerra. Ma per il momento, è un trionfo”.

Lo stesso Kissinger era ovunque — ABC, NBC, CBS, PBS, alla radio, nei giornali — ad elargire la propria opinione. “Penso sia andata bene” disse a Dan Rather quella stessa notte. Vi sarebbe poi stato una tecno-esibizione di presunta onnipotenza, grazie alla quale Bush ebbe un tale consenso di massa che Kissinger e Nixon potevano solo sognare. Con le riprese in diretta, venne l’approvazione in diretta, la conferma che il presidente aveva l’appoggio del pubblico. Il 18 gennaio, la CBS annunciò che un nuovo sondaggio “indicava un supporto estremamente forte per l’offensiva del Golfo di Bush”.

“Grazie a Dio” disse Bush in trionfo “ abbiamo sconfitto la sindrome del Vietnam una volta per tutte”.

Le truppe di Saddam Hussein vennero facilmente spinte oltre il Kuwait e, sembrava probabile un esito che giustificasse la logica a supporto delle operazioni aeree clandestine di Nixon e Kissinger in Cambogia: cioè che gli Stati Uniti sono liberi di usare qualsiasi dispiegamento di forze necessario a spingere verso l’esito politico voluto. Sembrava che quel mondo al quale Kissinger aveva a lungo creduto, si stesse finalmente realizzando.

…verso l’11 settembre

Saddam Hussein, tuttavia, restò al potere a Baghdad, creando un problema di enormi proporzioni al successore di Bush: Bill Clinton. Con l’incremento delle dure sanzioni, intervallate da occasionali raid missilistici su Baghdad, aveva solamente peggiorato la crisi. I bambini erano affamati, i civili morivano sotto i missili Usa, e il regime Baathista non cedeva.

Kissinger osservava tutto ciò con una sorta di divertito distacco. In un certo senso Clinton seguiva la sua linea: stava bombardando un paese col quale non si era in guerra, e senza l’approvazione del Congresso. in parte per placare la destra militarista. Nel 1998, ad una conferenza per la commemorazione del 25° anniversario degli accordi che posero fine alla Guerra del Vietnam, Kissinger espresse la sua opinione sull’Iraq. “Se siamo nel giusto o no” disse Kissinger, “E’ veramente secondario”.

Questa dovrebbe restare come una dichiarazione degna di nota negli annali del “realismo politico”.

Non sorprende che, appena dopo l’11 settembre, Kissinger fosse un fiero sostenitore della risposta militare. Il 9 agosto del 2002, per esempio, in un suo articolo ripreso da molti, appoggiava la linea del cambio di regime in Iraq, definendola come rivoluzionaria.” “Il concetto di attacco preventivo”, scrisse, “va contro il moderno diritto internazionale”, ma si rende nondimeno necessario a causa della novità della “minaccia terroristica”, che “trascende la dimensione nazionale”.

Vi era, tuttavia, “un'altra ragione, quasi sempre nascosta, per impegnarsi contro l’Iraq” : “dimostrare che una sfida terroristica o un attacco sistemico all’ordine internazionale porta solo a conseguenze catastrofiche per coloro che lo architettano, così come ai loro sostenitori.” Per essere — in modo veramente Kissingeriano — nelle grazie dei membri più militaristi dell’amministrazione americana, il massimo “realista politico” era, in altre parole, del tutto disposto ad ignorare che i Baathisti laici di Baghdad erano nemici dei Jihadisti, e che l’Iraq non ha mai organizzato l’11 settembre, né lo ha finanziato o ha mai appoggiato gli autori dell’attentato. Dopo tutto, il fatto che “giusto o no è veramente secondario” va alla questione principale: essere disponibili a fare qualcosa di decisivo, specialmente usando forze aeree per “spezzare la schiena” a… beh a chiunque.

Meno di tre settimane dopo, il vicepresidente Dick Cheney, esponendo il proprio piano per l’invasione dell’Iraq davanti alla riunione dei Veterani delle Guerre Estere, citò direttamente un articolo di Kissinger. “Come ha dichiarato l’ex Segretario di Stato Henry Kissinger”, disse Cheney, “è d’obbligo un’azione preventiva”.

Nel 2005, in seguito alle rivelazioni sulle falsificazioni dell’intelligence e la manipolazione della stampa al fine di neutralizzare l’opposizione all’intervento in Iraq, e dopo Fallujah e Abu Grahib, divenne in seguito chiaro che il vero beneficiario dell’occupazione sarebbe stato l’Iran rivoluzionario, Micheal Gerson, l’autore dei discorsi di Bush, fece visita a Kissinger a New York. Da allora il supporto popolare alla guerra stava crollando, mentre aumentavano le motivazioni di Bush per averla ingaggiata.

La resposabilità dell’America, dichiarò in precedenza quello stesso anno nel suo secondo discorso di inizio mandato, era di “liberare il mondo dal male”.

Gerson, che lo aveva aiutato a scrivere il discorso, chiese a Kissinger che cosa ne pensava. “All’inizio ero inorridito” disse Kissinger, ma dopo iniziò ad apprezzarlo per motivi strumentali. “Riflettendoci”, come riportò Bob Woodward nel suo libro Stato di negazione , lui “riteneva ora che quel discorso avesse uno scopo, e fosse una mossa molto intelligente: far rientrare la guerra al terrore e in generale la politica estera Usa nell’insieme dei valori americani. Ciò avrebbe aiutato a sostenere una missione non breve.”

In quell’incontro Kissinger diede a Gerson una copia della famigerata relazione che scrisse Nixon nel 1969 e gli chiese di farla avere a Bush. “ Il ritiro delle truppe Usa sarà come delle noccioline gettate al pubblico americano” ammonì, “più truppe Usa torneranno a casa, più ce ne vorranno.” Per non cadere in quella trappola, Kissinger disse a Gerson che, una volta iniziato il ritiro delle truppe, diventerà “sempre più difficile tenere alto il morale di quelli che restano, per non parlare delle loro madri”.

Kissinger si ricordava allora del Vietnam, facendo presente a Gerson che gli incentivi offerti trmite i negoziati dovrebbero essere accompagnati da una minaccia credibile di natura spropositata. Come esempio, menzionò uno dei principali ultimatum dati ai Nord Vietnamiti, avvertendoli che ci sarebbero state “conseguenze catastrofiche” se non avessero offerto le concessioni necessarie agli Usa per ritirarsi dal Vietnam “con onore”. Loro non lo fecero.

“Non avevo abbastanza potere”, così Kissinger sintetizzò la sua esperienza lungo più di trent’anni.

Il circolo sarà spezzato?

Quando si parla di militarismo americano, l’opinione comune pone l’idealista Samantha Power e il realista Kissinger ai poli opposti di uno schieramento. L’opinione comune è sbagliata, come ha fatto notare lo stesso Kissinger. L’anno scorso, nel promuovere il suo libro L’ordine mondiale, Kissinger rispose alle domande sulle sue controverse politiche parlando di Obama. Non vi era, disse, alcuna differenza tra ciò che lui stesso fece coi B-52 in Cambogia, e ciò che il presidente stava facendo coi droni in Pakistan, Somalia, e Yemen. Quando gli fu chiesto del suo ruolo nel rovesciare Salvador Allende, il presidente del Cile democraticamente eletto nel 1973, insistette che le sue azioni furono giustificate retroattivamente da ciò che Obama e la Power hanno fatto in Libia e cercano di fare in Siria.

La difesa di Kissinger era, di sicuro, parzialmente vana, specialmente per la sua assurda affermazione che sono morti meno civili a causa del mezzo milione di tonnellate di bombe sganciate in Cambogia rispetto a quelli uccisi dai missili Hellfire dei droni di Obama. (Stime credibili quantificano le vittime cambogiane a più di 100.000; i droni sono invece responsabili di circa 1000 morti civili). Aveva ragione, tuttavia, nell’affermare che molti degli argomenti politici da lui portati avanti alla fine degli anni ’60 per giustificare le sue guerre segrete e illegali in Cambogia e Laos, venivano al tempo considerati al di fuori del pensiero mainstream, mentre oggi sono indiscussi, e fanno pubblicamente parte del panorama politico Usa. Ciò è particolarmente vero riguardo all’idea che gli Usa abbiano il diritto di violre la sovranità di paesi neutrali per distruggere le “roccaforti” del nemico. “Se tu minacci l’America, non troverai un porto sicuro” ha affermato Barack Obama, offrendo a Kissinger la propria retroattiva assoluzione.

Qui abbiamo dunque la perfetta espressione del circolo continuo del militarismo americano. Kissinger si appella alle guerre senza fine e senza esito di oggi, per giustificare la sua diplomazia delle forze aeree in Cambogia e altrove quasi mezzo secolo fa. Ma ciò che ha fatto allora ha creato le condizioni per le guerre infinite di oggi, sia quelle iniziate dai Neocon di Bush, sia quelle ingaggiate dai liberali guerrafondai di Obama come Samantha Power. Così vanno le cose a Washington.



Greg Grandin

Fonte: www.tomdispatch.com

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