di MICHELE DAL LAGO (sociologo; Università di Bergamo)
L’intreccio tra politica democratica e gestione dell’economia di ispirazione keynesiana ebbe un impatto talmente rilevante sui sistemi scolastici dei paesi industrializzati che alcuni studiosi, già nei primi anni Settanta, definivano il decennio precedente «l’età dell’oro dell’istruzione». Tale entusiasmo non era motivato solamente dalla crescita quantitativa dell’accesso all’istruzione. A partire dal dopoguerra, infatti, i sistemi scolastici aveva assunto una rilevanza strategica nelle politiche volte a favorire la democrazia sostanziale e la mobilità sociale. Per la prima volta nella storia la scuola era vista come uno strumento di politica sociale in direzione progressista, destinato a trascendere, anziché confermare, le divisioni sociali esistenti.
Tanto in termini demografici, quanto di integrazione sociale e di sviluppo generale, il processo di scolarizzazione di massa – promosso dagli interventi di pianificazione dell’istruzione dei governi nazionali – raggiunse, in tempi brevissimi, risultati impensabili fino a pochi anni prima. L’epoca keynesiana coincise con l’affermazione dell’educational planning, inteso sia come ciclo di policy capace di rispondere al crescente fabbisogno di manodopera qualificata, sia come risposta a bisogni sociali e democratici. Come scrive Lenhardt, ricordando il clima culturale di quegli anni, «la pianificazione dell’istruzione sembrava un potente mezzo non solo per avviare il cambiamento sociale, ma anche per modificare il modo in cui lo sviluppo di una società procede».
Anche negli Stati Uniti non era solo la domanda crescente di forza lavoro qualificata – che pure registrava un incremento senza precedenti, in particolare per quanto riguarda le professioni impiegatizie – a sollecitare una politica di promozione dell’accesso all’istruzione secondaria e superiore: vi era la convinzione che «la scolarizzazione di massa fosse un bene comune e che obbedisse a finalità pubbliche». E la concezione liberale dell’educazione, a differenza di molte sue declinazioni contemporanee, affidava allo Stato un ruolo centrale e determinante.
Di fatto, l’intervento diretto dello Stato nella pianificazione dell’istruzione fu tutt’altro che un fenomeno limitato ai paesi socialisti. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta videro la luce molti piani per l’istruzione nei paesi a capitalismo avanzato, culturalmente scettici rispetto all’idea stessa di pianificazione. In Europa i piani per l’istruzione furono innanzitutto una risposta a bisogni contingenti: la ricostruzione economica postbellica, il boom demografico e la contemporanea crescita delle aspettative di mobilità sociale ed economica, la competizione con il blocco socialista.
Nel frattempo, riscuoteva un successo sempre maggiore la teoria del capitale umano, che considerava l’istruzione come un investimento per la crescita dell’economia nazionale. Così, nel 1960 la Francia creò la Commission des Equipements Scolaires, Universitaires et Sportifs, mentre la Repubblica Federale Tedesca diede vita ad un piano federale per l’istruzione. Gli Stati Uniti, in risposta alla cosiddetta ‘sputnik crisis’ del 1957, emanarono il National Defence Education Act, che divenne legge il 2 settembre 1958. Il NDEA era una programma di finanziamento destinato a tutti i livelli dell’istruzione al fine di aumentare il numero di studenti universitari. L’urgenza di tale intervento derivava dal timore diffuso che gli scienziati statunitensi stessero perdendo terreno rispetto a quelli sovietici. Il NDEA perseguiva due obiettivi principali: da un lato accrescere il personale qualificato in settori strategici per la difesa nazionale (furono incentivati gli studiosi di lingue straniere, gli studenti di ingegneria e i centri di Area Studies); dall’altro offrire sostegno economico alle migliaia di studenti che desideravano iscriversi aicollege e alle università negli anni Sessanta.
Anche nei paesi in via di sviluppo le politiche di pianificazione svolsero un ruolo fondamentale nello sviluppo dei sistemi dell’istruzione, anche grazie agli stimoli provenienti dagli organismi internazionali come l’UNESCO e la Banca Mondiale (la quale poneva l’investimento programmato nel sistema scolastico come condizione necessaria per ottenere prestiti e sostegno economico). L’educational planning era considerato uno strumento essenziale non solo per favorire l’alfabetizzazione e l’integrazione economica di questi paesi nel mercato mondiale: molti di questi avevano da poco conquistato l’indipendenza e riconoscevano alla scuola una importante funzione di socializzazione nella costruzione di una identità nazionale.
All’interno del panorama appena descritto, l’Italia rappresentò un caso particolare in quanto, pur in assenza del consenso politico necessario per attuare una politica di pianificazione dell’istruzione di lungo periodo, realizzò una serie di interventi che mutarono radicalmente la struttura, l’organizzazione e la popolazione scolastiche. Nei primi anni Sessanta la composizione della manodopera (troppi lavoratori generici e troppo pochi qualificati) non era in grado di corrispondere pienamente alle necessità della grande industria. L’assenza di uno strato di operai qualificati, in possesso di una istruzione secondaria e dunque sufficientemente versatile per rispondere alle molteplici esigenze della grande industria, si faceva sentire, soprattutto nei momenti di maggiore espansione economica.
Agli inizi degli anni Sessanta, grazie soprattutto all’opera di ricerca e di divulgazione svolta dalla SVIMEZ [Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, costituitasi a Roma nel 1947, ndr], si diffuse, all’interno della classe politica, la consapevolezza dell’urgenza strategica di un intervento sulla politica scolastica. Il balzo in avanti registrato dall’economia italiana in quel periodo, l’espansione della base occupazionale del settore industriale, e le speranze stesse legate allo sviluppo, misero in luce una grave carenza di offerta di forza-lavoro intellettuale, tale da compromettere lo stesso sviluppo economico. Le previsioni SVIMEZ condizionarono fortemente il dibattito e l’azione politica negli anni del centro-sinistra.
Nonostante l’assenza di una vera e propria pianificazione di lungo periodo, gli interventi legislativi realizzati negli anni’ 60 determinarono un mutamento sostanziale nella struttura istituzionale e nella popolazione scolastica italiana. Due furono le principali modifiche introdotte nell’ordinamento scolastico: il riconoscimento del diritto e dell’obbligo all’istruzione fino ai 14 anni d’età (legge del 31 dicembre 1962 istitutiva della scuola media unica statale) e la liberalizzazione dell’università (legge dell’11 dicembre 1969 sui «Provvedimenti urgenti per l’università»). Furono entrambi interventi decisivi per favorire la scolarizzazione di massa in Italia.
fonte: Università degli Studi di Bergamo
L’intreccio tra politica democratica e gestione dell’economia di ispirazione keynesiana ebbe un impatto talmente rilevante sui sistemi scolastici dei paesi industrializzati che alcuni studiosi, già nei primi anni Settanta, definivano il decennio precedente «l’età dell’oro dell’istruzione». Tale entusiasmo non era motivato solamente dalla crescita quantitativa dell’accesso all’istruzione. A partire dal dopoguerra, infatti, i sistemi scolastici aveva assunto una rilevanza strategica nelle politiche volte a favorire la democrazia sostanziale e la mobilità sociale. Per la prima volta nella storia la scuola era vista come uno strumento di politica sociale in direzione progressista, destinato a trascendere, anziché confermare, le divisioni sociali esistenti.
Tanto in termini demografici, quanto di integrazione sociale e di sviluppo generale, il processo di scolarizzazione di massa – promosso dagli interventi di pianificazione dell’istruzione dei governi nazionali – raggiunse, in tempi brevissimi, risultati impensabili fino a pochi anni prima. L’epoca keynesiana coincise con l’affermazione dell’educational planning, inteso sia come ciclo di policy capace di rispondere al crescente fabbisogno di manodopera qualificata, sia come risposta a bisogni sociali e democratici. Come scrive Lenhardt, ricordando il clima culturale di quegli anni, «la pianificazione dell’istruzione sembrava un potente mezzo non solo per avviare il cambiamento sociale, ma anche per modificare il modo in cui lo sviluppo di una società procede».
Anche negli Stati Uniti non era solo la domanda crescente di forza lavoro qualificata – che pure registrava un incremento senza precedenti, in particolare per quanto riguarda le professioni impiegatizie – a sollecitare una politica di promozione dell’accesso all’istruzione secondaria e superiore: vi era la convinzione che «la scolarizzazione di massa fosse un bene comune e che obbedisse a finalità pubbliche». E la concezione liberale dell’educazione, a differenza di molte sue declinazioni contemporanee, affidava allo Stato un ruolo centrale e determinante.
Di fatto, l’intervento diretto dello Stato nella pianificazione dell’istruzione fu tutt’altro che un fenomeno limitato ai paesi socialisti. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta videro la luce molti piani per l’istruzione nei paesi a capitalismo avanzato, culturalmente scettici rispetto all’idea stessa di pianificazione. In Europa i piani per l’istruzione furono innanzitutto una risposta a bisogni contingenti: la ricostruzione economica postbellica, il boom demografico e la contemporanea crescita delle aspettative di mobilità sociale ed economica, la competizione con il blocco socialista.
Nel frattempo, riscuoteva un successo sempre maggiore la teoria del capitale umano, che considerava l’istruzione come un investimento per la crescita dell’economia nazionale. Così, nel 1960 la Francia creò la Commission des Equipements Scolaires, Universitaires et Sportifs, mentre la Repubblica Federale Tedesca diede vita ad un piano federale per l’istruzione. Gli Stati Uniti, in risposta alla cosiddetta ‘sputnik crisis’ del 1957, emanarono il National Defence Education Act, che divenne legge il 2 settembre 1958. Il NDEA era una programma di finanziamento destinato a tutti i livelli dell’istruzione al fine di aumentare il numero di studenti universitari. L’urgenza di tale intervento derivava dal timore diffuso che gli scienziati statunitensi stessero perdendo terreno rispetto a quelli sovietici. Il NDEA perseguiva due obiettivi principali: da un lato accrescere il personale qualificato in settori strategici per la difesa nazionale (furono incentivati gli studiosi di lingue straniere, gli studenti di ingegneria e i centri di Area Studies); dall’altro offrire sostegno economico alle migliaia di studenti che desideravano iscriversi aicollege e alle università negli anni Sessanta.
Anche nei paesi in via di sviluppo le politiche di pianificazione svolsero un ruolo fondamentale nello sviluppo dei sistemi dell’istruzione, anche grazie agli stimoli provenienti dagli organismi internazionali come l’UNESCO e la Banca Mondiale (la quale poneva l’investimento programmato nel sistema scolastico come condizione necessaria per ottenere prestiti e sostegno economico). L’educational planning era considerato uno strumento essenziale non solo per favorire l’alfabetizzazione e l’integrazione economica di questi paesi nel mercato mondiale: molti di questi avevano da poco conquistato l’indipendenza e riconoscevano alla scuola una importante funzione di socializzazione nella costruzione di una identità nazionale.
All’interno del panorama appena descritto, l’Italia rappresentò un caso particolare in quanto, pur in assenza del consenso politico necessario per attuare una politica di pianificazione dell’istruzione di lungo periodo, realizzò una serie di interventi che mutarono radicalmente la struttura, l’organizzazione e la popolazione scolastiche. Nei primi anni Sessanta la composizione della manodopera (troppi lavoratori generici e troppo pochi qualificati) non era in grado di corrispondere pienamente alle necessità della grande industria. L’assenza di uno strato di operai qualificati, in possesso di una istruzione secondaria e dunque sufficientemente versatile per rispondere alle molteplici esigenze della grande industria, si faceva sentire, soprattutto nei momenti di maggiore espansione economica.
Agli inizi degli anni Sessanta, grazie soprattutto all’opera di ricerca e di divulgazione svolta dalla SVIMEZ [Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, costituitasi a Roma nel 1947, ndr], si diffuse, all’interno della classe politica, la consapevolezza dell’urgenza strategica di un intervento sulla politica scolastica. Il balzo in avanti registrato dall’economia italiana in quel periodo, l’espansione della base occupazionale del settore industriale, e le speranze stesse legate allo sviluppo, misero in luce una grave carenza di offerta di forza-lavoro intellettuale, tale da compromettere lo stesso sviluppo economico. Le previsioni SVIMEZ condizionarono fortemente il dibattito e l’azione politica negli anni del centro-sinistra.
Nonostante l’assenza di una vera e propria pianificazione di lungo periodo, gli interventi legislativi realizzati negli anni’ 60 determinarono un mutamento sostanziale nella struttura istituzionale e nella popolazione scolastica italiana. Due furono le principali modifiche introdotte nell’ordinamento scolastico: il riconoscimento del diritto e dell’obbligo all’istruzione fino ai 14 anni d’età (legge del 31 dicembre 1962 istitutiva della scuola media unica statale) e la liberalizzazione dell’università (legge dell’11 dicembre 1969 sui «Provvedimenti urgenti per l’università»). Furono entrambi interventi decisivi per favorire la scolarizzazione di massa in Italia.
fonte: Università degli Studi di Bergamo
Nessun commento:
Posta un commento