Migliaia di bambini in Bangladesh sono costretti a lavorare per ore e ore in fabbriche tessili irregolari, dove si occupano di cucire i jeans e gli altri abiti che indossiamo abitualmente. Vengono pagati soltanto20 centesimi al giorno. Un nuovo reportage fotografico fa luce sullo sfruttamento del lavoro minorile e sui lati oscuri dell’industria dell’abbigliamento.
Il fotografo Claudio Montesano Casillas ha documentato ciò che accade all’interno dei laboratori clandestini dell’industria dell’abbigliamento presenti in Bangladesh, precisamente nella località di Keraniganj (Dhaka).
In Bangladesh circa 7000 fabbrichenon sono soggette a controlli di sicurezza. Le fotografie mostrano edifici senza uscite d’emergenza, piani antincendio o estintori. Ci troviamo nelle vicinanze di Rana Plaza, dove l’incendio in una fabbrica nel 2013 provocò la morte di più di 1000 persone.
Le fabbriche irregolari producono abbigliamento che verrà messo in vendita a livello locale ma anche capi per le grandi marche internazionali, attraverso dei subappalti che rendono davvero difficile capire quale sia la reale provenienza dei prodotti.
Visitando queste fabbriche del Bangladesh, il fotografo ha rilevato condizioni di sicurezza inesistenti. In una sola stanza possono essere presenti fino a 15 macchine da cucire. Qui i bambini, che sono obbligati a lavorare e che dunque non possono frequentare la scuola, si occupano di compiti di ogni tipo, dall’applicazione delle paillettes alla pulizia dei macchinari.
Si lavora tutti i giorni dall’alba al tramonto. I bambini di età compresa tra i 10 e i 14 anni costretti a lavorare in Bangladesh sono circa 1 milione secondo l’UNICEF, ma il numero in realtà sarebbe molto più alto.
Nelle fabbriche ufficiali, interessate dai controlli da parte delle autorità, le condizioni di sicurezza sarebbero migliori. Un discorso che non vale per lefabbriche clandestine, proprio quelle dove avviene il maggior sfruttamento minorile. Una realtà davvero tragica a cui possiamo provare a non contribuire controllando meglio la provenienza dei nostri abiti.
Marta Albè
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