Apparentemente il 2015 segna l’inizio della rivoluzione in seno al FMI. In primo luogo, viene approvata l’inclusione dello yuan nei DSP, il paniere di valute create nel 1969 per integrare le riserve ufficiali dei Paesi membri. E ora, grazie all’approvazione del Congresso, il FMI potrà finalmente attuare la riforma del sistema delle quote di rappresentanza, dove Cina e altre potenze emergenti aumentano il peso sul processo decisionale, mentre i Paesi dell’Europa continentale perderanno rilevanza. Tuttavia, è ancora prematuro concludere che ci sia un cambio radicale dell’equilibrio di potere nel Fondo monetario internazionale: gli Stati Uniti manterranno il potere di veto.
Gli Stati Uniti sembrano aver finalmente capito che per mantenere la leadership globale è controproducente ignorare il ruolo crescente della Cina e delle altre potenze emergenti, nel condividere la responsabilità della gestione della finanza internazionale. Perciò, e molto a malincuore, Washington non ha avuto altra scelta che concedere maggiori concessioni agli avversari sul Fondo monetario internazionale (FMI).
In un primo momento, l’ultima settimana di novembre, il FMI decise d’includere lo yuan nei Diritti speciali di prelievo (DSP), il paniere di valute creato alla fine degli anni ’60 per integrare le riserve ufficiali dei suoi membri. Anche se nel fondo diversi funzionari statunitensi erano contrari fin dall’inizio, alla fine Pechino si è impegnata a ulteriori progressi nella liberalizzazione del settore finanziario. Fino ad oggi, la Banca popolare di Cina ha firmato una quarantina di accordi di currency swap bilaterali (“currency swap”). Quest’anno le banche centrali di Suriname, Sud Africa e Cile hanno iniziato a promuovere presso le imprese dei loro Paesi l’abbandono del dollaro. Sempre più spesso la divisa statunitense viene soppiantata dallo yuan nel fatturato commerciale della Cina. Questa strategia ha permesso allo yuan d’essere oggi la seconda valuta più utilizzata nella finanza commerciale e la quarta nei pagamenti internazionali, secondo i dati della Società per le telecomunicazioni finanziarie interbancarie mondiali (SWIFT, nell’acronimo in inglese). E prima o poi la moneta cinese sarà pienamente convertibile, cioè liberamente scambiabile sul mercato senza alcuna restrizione. Ecco come i leader del Partito comunista della Cina sono riusciti ad abbattere i sospetti della direttrice esecutiva del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde: dal prossimo 1° ottobre 2016 lo yuan diventerà la terza valuta più importante nella composizione dei DSP. La “moneta del popolo” (‘RMB’) avrà un peso maggiore nel paniere del Fondo monetario internazionale rispetto a yen giapponese e sterlina inglese, ma comunque meno di dollaro ed euro. E in un secondo tempo, il 18 dicembre, il Congresso degli Stati Uniti dava il via libera al Fondo monetario internazionale per attuare la riforma del sistema delle quote di rappresentanza. Indubbiamente, è il cambiamento più importante in seno al FMI dal 1944, anno in cui Bretton Woods fu costituita. La nuova distribuzione delle quote significa anche un grande sollievo per la legittimità del fondo. Il collasso economico nel 2008 rivelava che il FMI non disponeva delle risorse sufficienti per far fronte alla crisi di liquidità. Alcun Paese sovrano dichiarava l’intenzione di chiedergli aiuto. Il FMI è completamente screditato dalla prestazione nella crisi del debito in America Latina e Sud-est asiatico: s’era dimostrato che operava come braccio armato del Tesoro degli Stati Uniti, non come gestore di fondi multilaterali per stabilizzare gli squilibri dei pagamenti degli aderenti. Pertanto, Dominique Strauss-Kahn, direttore generale del Fondo monetario internazionale nel 2007-2011, convinse i Paesi emergenti a fare nuovi depositi in cambio dell’aumento delle loro quote. Il Consiglio di amministrazione dell’FMI approvò la proposta nel 2010 nell’ambito della XIV revisione generale delle quote.
L’iniziativa della riforma del Consiglio dei governatori (composto da tutti i membri) fu quindi presentata per l’approvazione finale dei parlamenti nazionali. Ma il governo degli Stati Uniti si propose di porre il veto. Affinché la decisione venisse accettata dal Fondo c’era bisogno dell’85% dei voti, e solo gli Stati Uniti ne hanno il 16,7%. Ma pochi giorni fa, dopo cinque anni di fervida opposizione del Congresso degli Stati Uniti, infine l’inerzia terminava. La riforma del regime delle quote sarà una realtà. Le risorse a disposizione del Fondo monetario internazionale sono duplicate, passando a 659,67 miliardi di euro. Si noti che la quota è assegnata ad un Paese secondo il livello massimo degli impegni finanziari col Fondo monetario internazionale e il potere di voto nell’istituzione, un fattore che decide l’accesso ai finanziamenti del FMI. Il passo più importante per la Cina, i cui diritti di voto aumenteranno da 3,8 a 6%, la terza potenza dopo Stati Uniti e Giappone. Il Brasile sale di quattro posizioni, mentre India e Russia sono riuscite ad entrare nella lista delle dieci più influenti. Invece, l’Europa cede. Fatta eccezione per la Spagna, la cui quota passa da 1,68 a 2%, Germania, Francia, Italia e Regno Unito diminuiscono la loro presenza. “Le riforme aumentano in modo significativo le risorse principali del FMI e ci permettono di offrire una risposta più efficace alla crisi, rafforzando nel contempo la struttura della corporate governance riflettendo meglio il ruolo crescente dei Paesi emergenti e in via di sviluppo nella dinamica dell’economia mondiale“, ha detto Lagarde in comunicato stampa. Tuttavia, purtroppo gli Stati Uniti manterranno il potere di veto: il diritto di voto si riduce di soli due decimi dal 16,7 al 16,5%. Finora sembra che i leader di Pechino non vogliano affrontare il dominio degli Stati Uniti nel Fondo monetario internazionale, istituzione che da più di settanta anni resta il “prestatore di ultima istanza” più importante su scala globale, tenendo conto del volume delle risorse gestite. La disputa tra Cina e Stati Uniti è solo tangenziale. Pechino ha cercato di aumentare la propria leva finanziaria attraverso le sue potenti banche statali (China Development Bank, China Ex-Im Bank, ICBC, Bank of China, ecc.), e attraverso le banche di sviluppo regionale a cui partecipa: la Banca degli Investimenti Infrastrutturali Asiatica (AIIB, nell’acronimo in inglese), Banca della Shanghai Cooperation Organization (SCO, nell’acronimo in inglese) e Banca dei BRICS (acronimo di Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa).
In Asia-Pacifico, Africa e America Latina e Caraibi indubbiamente la Cina compete testa a testa con la Banca Mondiale e le banche di sviluppo regionali sostenute da Washington (Asian Development Bank, Banca africana di sviluppo, Inter-American Development Bank, ecc.) nei progetti di finanziamento di infrastrutture ed estrazione di materie prime (commodities). Tuttavia, i meccanismi di cooperazione finanziaria guidati da Pechino, che forniscono liquidità ai Paesi nei momenti critici (problemi di liquidità), come l’Iniziativa Mai Chiang (che comprende Cina, Giappone, Corea del Sud e le dieci economie dell’ASEAN) e l’Accordo sulle riserve di emergenza dei BRICS (noto anche come “mini-FMI”) hanno limitate risorse monetarie, operano in dollari e dipendono dal sostegno del Fondo monetario internazionale per prestiti oltre un certo limite. Pertanto, mentre è un’ottima notizia per il mondo che Cina e altri Paesi con alti tassi di crescita del Prodotto interno lordo (PIL) siano riusciti ad avere una maggiore presenza nel Fondo monetario internazionale, e due seggi tra i venti del comitato esecutivo, gli Stati Uniti continuano ad esercitare un dominio schiacciante. Se Washington non è d’accordo con qualche dettaglio, per quanto piccolo, è possibile porre il veto su qualsiasi proposta dei Paesi emergenti, grazie al potere di veto. Indubbiamente, a un certo punto, la Cina dovrà fare pressioni per impedire che un solo Paese scriva le regole del gioco, di volta in volta…Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
L’iniziativa della riforma del Consiglio dei governatori (composto da tutti i membri) fu quindi presentata per l’approvazione finale dei parlamenti nazionali. Ma il governo degli Stati Uniti si propose di porre il veto. Affinché la decisione venisse accettata dal Fondo c’era bisogno dell’85% dei voti, e solo gli Stati Uniti ne hanno il 16,7%. Ma pochi giorni fa, dopo cinque anni di fervida opposizione del Congresso degli Stati Uniti, infine l’inerzia terminava. La riforma del regime delle quote sarà una realtà. Le risorse a disposizione del Fondo monetario internazionale sono duplicate, passando a 659,67 miliardi di euro. Si noti che la quota è assegnata ad un Paese secondo il livello massimo degli impegni finanziari col Fondo monetario internazionale e il potere di voto nell’istituzione, un fattore che decide l’accesso ai finanziamenti del FMI. Il passo più importante per la Cina, i cui diritti di voto aumenteranno da 3,8 a 6%, la terza potenza dopo Stati Uniti e Giappone. Il Brasile sale di quattro posizioni, mentre India e Russia sono riuscite ad entrare nella lista delle dieci più influenti. Invece, l’Europa cede. Fatta eccezione per la Spagna, la cui quota passa da 1,68 a 2%, Germania, Francia, Italia e Regno Unito diminuiscono la loro presenza. “Le riforme aumentano in modo significativo le risorse principali del FMI e ci permettono di offrire una risposta più efficace alla crisi, rafforzando nel contempo la struttura della corporate governance riflettendo meglio il ruolo crescente dei Paesi emergenti e in via di sviluppo nella dinamica dell’economia mondiale“, ha detto Lagarde in comunicato stampa. Tuttavia, purtroppo gli Stati Uniti manterranno il potere di veto: il diritto di voto si riduce di soli due decimi dal 16,7 al 16,5%. Finora sembra che i leader di Pechino non vogliano affrontare il dominio degli Stati Uniti nel Fondo monetario internazionale, istituzione che da più di settanta anni resta il “prestatore di ultima istanza” più importante su scala globale, tenendo conto del volume delle risorse gestite. La disputa tra Cina e Stati Uniti è solo tangenziale. Pechino ha cercato di aumentare la propria leva finanziaria attraverso le sue potenti banche statali (China Development Bank, China Ex-Im Bank, ICBC, Bank of China, ecc.), e attraverso le banche di sviluppo regionale a cui partecipa: la Banca degli Investimenti Infrastrutturali Asiatica (AIIB, nell’acronimo in inglese), Banca della Shanghai Cooperation Organization (SCO, nell’acronimo in inglese) e Banca dei BRICS (acronimo di Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa).
In Asia-Pacifico, Africa e America Latina e Caraibi indubbiamente la Cina compete testa a testa con la Banca Mondiale e le banche di sviluppo regionali sostenute da Washington (Asian Development Bank, Banca africana di sviluppo, Inter-American Development Bank, ecc.) nei progetti di finanziamento di infrastrutture ed estrazione di materie prime (commodities). Tuttavia, i meccanismi di cooperazione finanziaria guidati da Pechino, che forniscono liquidità ai Paesi nei momenti critici (problemi di liquidità), come l’Iniziativa Mai Chiang (che comprende Cina, Giappone, Corea del Sud e le dieci economie dell’ASEAN) e l’Accordo sulle riserve di emergenza dei BRICS (noto anche come “mini-FMI”) hanno limitate risorse monetarie, operano in dollari e dipendono dal sostegno del Fondo monetario internazionale per prestiti oltre un certo limite. Pertanto, mentre è un’ottima notizia per il mondo che Cina e altri Paesi con alti tassi di crescita del Prodotto interno lordo (PIL) siano riusciti ad avere una maggiore presenza nel Fondo monetario internazionale, e due seggi tra i venti del comitato esecutivo, gli Stati Uniti continuano ad esercitare un dominio schiacciante. Se Washington non è d’accordo con qualche dettaglio, per quanto piccolo, è possibile porre il veto su qualsiasi proposta dei Paesi emergenti, grazie al potere di veto. Indubbiamente, a un certo punto, la Cina dovrà fare pressioni per impedire che un solo Paese scriva le regole del gioco, di volta in volta…Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
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