martedì 17 maggio 2016

VOI PENSATE ANCORA DI CAVARVELA, VERO?



Gli “americani” sono cattivi. Sono in tanti ad avercela con loro “a prescindere”. Lontani i tempi di Berlusconi che diceva “sto con gli americani ancora prima di sapere da che parte stanno loro”.

Bel lavoro hanno fatto, in Afghanistan, in Somalia, in Iraq, in Siria.

E oggi col TTIP ci vogliono definitivamente trasformare a rango di colonia.

Ma non è sempre stato così.

Negli anni settanta dello “shock petrolifero”, i comunisti “mangia bambini” premevano alle porte dell’Occidente, mentre “l’America” si proponeva come unico faro di civiltà in un mondo di barbari, il “poliziotto del mondo”.

Gli americani progressisti – ebbene sì, al tempo ce n’erano tanti – propugnavano parità e diritti umani per ogni cittadino, parlavano di libero pensiero, di lavoro per tutti – vagheggiavano addirittura di uno stato sociale che garantisse tutto questo.

Negli Stati Uniti d’America si combatteva molto per i diritti dei neri, dei giovani, di tutti: si parlava diffusamente di interesse collettivo, di un mondo “nuovo” che scordasse la guerra e l’ingiustizia. John Lennon immortalò quegli ideali nella sua più famosa canzone “Imagine”.

Sembrava davvero che questa visione “Progressista” fosse destinata a concretizzarsi, almeno in quella parte di mondo “libero” che corrispondeva alle democrazie occidentali.

Tutte quelle idee progressiste, la democrazia e l’eguaglianza che queste propagandavano, cominciarono ad infastidire le grandi élite del potere finanziario e capitalistico degli Usa e più in generale dell’Occidente. E nei primissimi anni settanta queste idee cominciarono a preoccupare. Seriamente.

Togliere il potere saldamente detenuto da pochi per darlo a molti non suonava particolarmente bene, alle orecchie di quei “pochi”.

Va bene parlare di realizzare il bene di tutti, vagheggiare di una società dove tutti possano stare meglio, ma solo fino ad un certo punto. A furia di parlarne poi la gente avrebbe cominciato a crederci davvero. E questo non era un bene.

Specie per le suddette élite. Che infatti non rimasero solo a guardare.

Nel 1971 uno sconosciuto signore, tale Eugene Sydnor jr (direttore della Camera di Commercio degli Stati Uniti) chiese ad un altrettanto sconosciuto Mr. Powell di fare una analisi sulla situazione del sistema finanziario statunitense.

Lewis Powell era un noto avvocato aziendale, che divenne famoso proprio con il rapporto pubblico da allora noto come “Powell Memorandum”.

Undici pagine che contenevano una approfondita diagnosi dove si evidenziava come il sistema delle corporation fosse al momento soggetto ad un attacco sistematico e condiviso.

Pubblicato nell’agosto 1971 col titolo “Attack of American Free Enterprise System”, era uno stringato rapporto che suggeriva di fatto alla finanza internazionale di abrogare l’idea di democrazia, di equità sociale e delineava le linee base della inevitabile guerra strisciante che si sarebbe dovuta condurre per sconfiggere le sinistre. Nel documento si legge che le idee progressiste lottano contro il sistema delle imprese e i valori della società occidentale e che ci si trovava in una situazione di “libertà sotto attacco massiccio”.

Anche se i contenuti vanno contestualizzati alla situazione di allora (uno scontro massivo fra blocco occidentale e socialismo/comunismo), la prima cosa che suggeriva Powell era di colpire la sinistra estrema, perché era numerosa, discretamente finanziata e ben accettata.

L’autore del memorandum vedeva come nemiche tutta la pluralità di voci provenienti da ambienti come le università, i media, gli intellettuali, gli artisti e i politici, dove proliferavano i riformatori sociali, i contestatori, gli attivisti. E non era nel torto: all’epoca quasi la metà degli studenti era a favore della socializzazione delle industrie americane fondamentali.

Powell nel suo rapporto propone di dare maggior voce e influenza al business, alle corporazioni e agli azionisti. Afferma che nelle università vanno inseriti docenti provenienti dalle destre economiche che credono assolutamente nel sistema delle imprese, vanno sostituiti i libri di testo di economia, di scienze politiche e di sociologia.

Indica chiaramente di finanziare, organizzare e pianificare nel lungo termine le destre, le quali dovranno dar vita a potenti lobby di potere economico, che sappiano essere incisive in Occidente e negli Stati Uniti, capaci di decidere sul commercio mondiale.

L’affermazione più clamorosa nel testo è questa: “il potere politico è indispensabile, deve essere coltivato con assiduità e usato in modo aggressivo se necessario, senza imbarazzo.”

La lungimiranza di Powell è dimostrata dal ruolo importante che assegna ai media, li identifica come centrali e necessari ai giochi di potere. Infatti propone di monitorate costantemente i libri di testo universitari, la radio, le trasmissioni televisive e la stampa: quelli erano i settori da cui provenivano le critiche più insidiose al sistema del business. All’epoca erano le principali fonti di informazione di una società che neppure poteva immaginare l’arrivo di Internet e la possibilità dell’esistenza di una informazione indipendente.

L’essenza del suo messaggio è la necessità di dare nascita al fondamentalismo del Libero Mercato (Neoliberismo), pensiero economico che per decenni dilagherà senza freni tra le facoltà universitarie di economia, tra i media e gli intellettuali.

Powell aprì solo la strada: il suo pensiero fu successivamente completato con l’istituzione della Commissione Trilaterale, una “libera associazione di cittadini” americani, europei e giapponesi che nascerà nel 1973, con l’intento dichiarato di incoraggiare una stretta collaborazione fra queste tre regioni sui problemi comuni e di migliorarne la comprensione pubblica.

La Trilaterale commissionò a Samuel Huntington, Michel Crozier e Joji Watanuki, uno studio sulla situazione politica, economica e sociale occidentale. Lo studio assunse il nome di “The Crisis Of Democracy” e fu discusso dalla Commissione Trilaterale stessa a maggio del 1975.

Non mancarono gli apporti esterni, fra cui questi simpatici personaggi (c’è anche un italiano che magari conoscete bene…):

(fonte:http://trilateral.org/page/7/membership)

Ovviamente è più che chiaro come la Commissione Trilaterale fosse di fatto formata solo da potenti lobby che avevano, al di là dei proclami, l’unico intento di tutelare i propri interessi.

Dall’analisi del Powell Memorandum e del testo “The Crisis Of Democracy” traspare che l’occidente “delle libertà”, tra il 1971 e il 1975, si proponeva nei fatti di bloccare l’idea di democrazia e di equità sociale, per far avanzare la finanza attraverso la diminuzione del potere del governo e della sua autorità.

Nel testo si evince che i sindacati dovevano essere depotenziati per indebolire le lotte dei lavoratori, così ci sarebbero state meno pressioni sui governi. Si pone accento sui “cittadini attivi” che vanno controllati socialmente attraverso i media, ovviamente in modo occulto tramite un ferreo controllo dell’informazione pubblica.

Viene affermato a chiare lettere che i cittadini non devono venire a conoscenza di troppe cose, che va bloccata la “nuova consapevolezza”, bisogna creare una “massa apatica e conformista” di consumatori e piccoli investitori.

In pratica l’obiettivo è formare un esercito di docili storditi “sleepers”, una massa di “distratti e svagati”, creata usando metodi sotf, flessibili, funzionali e non coercitivi.

Insomma: mantenere tutti gli ornamenti della democrazia, ma di fatto azzerandone la partecipazione, rendendo i cittadini inattivi, innocui, lasciar loro credere che la “democrazia partecipativa” sia ancora in vita solo ed esclusivamente perché – se ne hanno voglia – possono ancora votare. In effetti, se ci fermiamo all’apparenza, tutto ci fa credere effettivamente che viviamo in democrazia, ma a ben guardare si capisce che ci muoviamo in una casa dove le pareti sono di vetro, ma non ci sono porte e finestre per uscire.

Il piano era chiaro, ma visionario. Buono per discuterne, per spendere soldi in consulenze, ma sostanzialmente proiettato verso il futuro di cui al tempo – a differenza di oggi – tutti si preoccupavano e tutti volevano plasmare al meglio (ognuno per sé).

Il cambio passo avvenne quasi subito con la crisi del 1973-’74, nota come “primo shock petrolifero”, quando il cittadino medio del mondo libero (sostanzialmente solo gli occidentali) scoprì con orrore che il suo tenore di vita, l’intera sua civiltà, industria e società erano in mano a quattro dannati sceicchi del deserto.

Sceicchi che a causa del comportamento politico non proprio lungimirante degli Stati Uniti nei confronti del loro alleato Israele, in mancanza di armi convenzionali utilizzarono (oltre ai dirottamenti aerei) l’arma più potente: il “ricatto petrolifero”.

Grazie alla sapiente gestione degli affari internazionali praticata dall’unico vero vincitore della seconda guerra mondiale, diventato per forza di cose “poliziotto del mondo”, l’economia occidentale conobbe la carenza di petrolio, la prima vera grande crisi del dopoguerra e il conseguente aumento dei prezzi dell’energia, dei trasporti, delle merci e di fatto del costo della vita. E di concerto la comparsa del simpatico fenomeno dell’ inflazione con il suo corollario di rivendicazioni salariali, malesseri sociali e compagnia danzante.

Nel corso degli anni settanta i valori delle divise cominciarono ad oscillare, l’inflazione interna di paesi come il nostro iniziò a galoppare, raggiungendo un secondo picco con la successiva crisi del 1979, con il “secondo shock petrolifero”. A Roma la stampante monetaria lavorava anche di notte, e i nostri governanti mantenevano a galla la barcaccia a suon di “svalutazioni competitive”.

Gli italiani erano in quegli anni “i cinesi d’Europa”. Bassi salari, bassa tecnologia, basse imposte: una pacchia… per chi esportava, ovviamente! I beni di consumo in Italia erano rari, costosi e limitati.

Si comprava italiano, non solo per spirito patriottico, ma per necessità. I beni di importazione erano cari, quasi inavvicinabili, con la parziale eccezione dei prodotti europei, già più abbordabili. Qualunque cosa all’avanguardia proveniva dal Giappone o dagli Stati Uniti: i colossi erano Panasonic, Sony, Toshiba, Sanyo, JVC a cui si contrapponevano debolmente Philips, Grundig e Telefunken (sarà l’informatica, dieci anni dopo, a spostare massicciamente la produzione in Asia).

I beni di consumo erano ambiti e sospirati, gli spazi di mercato interno amplissimi: gli aumenti salariali, strappati a caro prezzo per la convivenza sociale, portarono però rapidamente ad un incremento dei consumi. E questo a sua volta ad un aumento continuo dei prezzi, alla stampa di nuova carta e ad un aumento dei consumi.

Dieci anni di inflazione, non solo in Italia, ma ovunque in Occidente. Arrivati ad un certo punto ci si doveva fermare, ma non si sapeva come fare.

Finché non apparve una medicina perfetta: la “ricetta neoliberista” da cui si originò la “politica neoliberista”.

Eccoci finalmente al dunque!

La medicina perfetta e universale per curare tutti i mali: crisi di sovrapproduzione, crescita dei salari/calo dei profitti, fluttuazione monetaria e l’inflazione.

Si abbandonava la politica keynesiana che prevedeva lo Stato come promotore dello sviluppo economico per entrare a pieno regime con gli ideali del neoliberismo.

In soli tre anni dal 1979 al 1982, la ricetta neoliberista delle banche centrali ridusse la quantità di banconote in circolazione e bloccò immediatamente l’odiata inflazione. Ovviamente bloccò anche altre cose. Nel medio e lungo periodo si arrivò a una diminuzione delle attività industriali e dei posti di lavoro, ma che importa in fondo? (Vivere alla giornata era la specialità dei governi italiani di allora, che non arrivavano a durare sei mesi)

La gente era contenta perché la belva dell’inflazione era sotto controllo, i “diritti acquisiti” strappati dalle varie categorie incamerati e ben custoditi (come anche le tante e infinite “rendite da posizione acquisita”), leggi e leggine tutelavano quella e quell’altra categoria (dai tassisti alle bancarelle, dai palazzinari ai bagnini, ai commercianti, alla piccola manifattura).

Furono gli anni dell’Italia che vinceva i campionati del mondo e la formula uno, il Bel Paese che esportava moda, arte del buon vivere, bellezza e buon gusto, fino ad arrivare alla mitica “Milano da bere”.

E sotto il vestito niente (ebbene sì, noi donne siamo sempre così…)!

Nessuno se ne rendeva conto, ma i semi della rovina erano ben piantati. E crescevano come l’inarrestabile debito pubblico.


Una serie di disastrose convergenze portarono al progressivo impoverimento della maggioranza della popolazione. Convergenze non propriamente imprevedibili, in effetti.

Ma quando mai si guarda al domani?

Finché c’erano tante valute su cui giostrarsi si poteva, in un modo o nell’altro, fare il giochino delle tre carte, svalutare, si raccontava ai propri elettori che non era vero niente, che anche dalle altre parti si stava uguale.

I prezzi erano non comparabili (salvo per i frontalieri che come stessero le cose oltre frontiera lo vedevano bene) e l’informazione non circolava: ora vi ricordate cosa diceva Powell? Cosa diceva il rapporto? “i cittadini non devono venire a conoscenza di troppe cose”.

Stavamo tutti bene, in effetti, perché quello che non sai non ti fa male.

All’epoca era facile. Oggi un po’ meno.

Crebbero le importanti economie di scala, vennero uniformate le norme, le misure, le specifiche tecniche, i regolamenti e la legislazione. Negli anni novanta in Italia venne imposta una lunga serie di “norme europee” che imponevano sostanziosi adeguamenti, molti dei quali “farlocchi”, antesignani del “dobbiamo farlo perché ce lo chiede l’Europa”.

Ben presto la pacchia finì perché il processo di allineamento entrò nel vivo con l’inevitabile adozione di una moneta unica.

Avete presente la mossa “all-in” nel poker texano? “Rilancio tutto quello che hai sul piatto e ora mi fai vedere le carte”.

La moneta unica bloccò ai governi italiani il giochino delle norme strampalate “di adeguamento europeo” che gli elettori si bevevano senza fiatare, convinti di modernizzarsi mentre i loro portafogli venivano sapientemente alleggeriti.

Ma ovviamente bloccò anche, con una decelerazione fatale, il giochino dello “stampa-che-ti passa” della Zecca di Stato. E ovviamente le carte in mano al “sistema Italia” si rivelarono un bluff.

Non un grosso bluff – anche gli altri non avevano certo dei poker d’assi – ma con una coppia di 8 non si poteva fare gran gioco.

A bocce ferme le imprese italiane si ritrovarono rapidamente meno competitive, il governo non poteva più attingere alla tipografia di stato e dovette aumentare la tassazione, investire in Italia diventò sempre meno interessante per investitori e industriali. In meno di quattro anni, ci accorgemmo della triste verità: avevamo i costi dell’Europa e i servizi del terzo mondo.

I più furbi, quelli che esportavano già da prima, si erano ben preparati: iniziarono a fare le valige. Piccole e medie imprese si spostarono all’estero verso lidi più accoglienti. Le grandi aziende verso tassazioni più clementi, verso paesi rimasti fuori dal giro, con stipendi più bassi e burocrazie più “comprensive”. Naturalmente le fabbriche se ne andarono lasciando indietro i lavoratori nonché le loro case “di proprietà” (e relativo mutuo), Progressivamente ai sindacati rimase solo la difesa dei lavoratori pubblici e dei pensionati.

Ovviamente non tutti gli imprenditori se ne andarono: quelli che non potevano e i pochi che effettivamente non volevano si arrangiarono in qualche modo per affrontare i costi crescenti, la tassazione esorbitante, i servizi inefficienti: abbassarono surrettiziamente i salari.

Non a tutti, ovvio, ma questo accadde inevitabilmente ai nuovi assunti, perché in questo paese “i diritti acquisiti non si toccano”! E ci mancherebbe altro.

Si crearono così le basi del nascente conflitto generazionale: lavoratori ipertutelati e pagati bene e lavoratori sottopagati e precari fianco a fianco a fare lo stesso identico lavoro.

Inoltre, con le tasche vuote, i ceti meno-abbienti (categoria in rapida crescita) adottarono la soluzione proposta soavemente dall’establishment-politico finanziario: farsi dare dalle banche soldi che non avrebbero mai potuto restituire per mantenere ancora per un po’ uno stile di vita divenuto insostenibile.

Le banche, ben felici di avere di nuovo qualcuno a cui lucrare interessi, passarono a finanziare i privati piuttosto che le imprese, i consumi a vantaggio della produzione, e foraggiarono il mercato dando il via ad una spaventosa bolla immobiliare.

Il problema è che non lo facevano solo qui da noi, ma ovunque. Ma soprattutto negli USA, in casa dei padroni. E con numeri e ritmi di crescita proporzionali alla loro economia, ovvero giganteschi.

Poi, finalmente, in una tiepida notte del 15 settembre 2008, mentre a New York tutti dormono ignari, la Lehman Brothers Holdings annuncia la “fine-del-mondo-per-come-lo-conoscete”.

Dichiara bancarotta e si porta dietro il mondo intero.

Il sistema finanziario mondiale si fermò bruscamente, e a seguire tutto il resto.

Fine del “credito facile”. Fine della pacchia. Fine della crescita a debito.

E il sistema bancario globale in ginocchio, costretto a dire la verità: “abbiamo prestato a cazzo soldi che non rivedremo mai più” e come se non bastasse “oltretutto erano soldi che non avevamo veramente.”

In Italia come al solito si fa finta di niente, la consuetudine è di nascondere la polvere sotto il tappeto, e complici i governi (vi siete forse dimenticati la “finanza Creativa” di Giulio Tremonti?), scavammo delle buche piuttosto profonde…sotto il tappeto, per metterci dentro tutto!

Meglio non camminarci sopra troppo.

Ma gli europei quegli avvallamenti li notano eccome: siccome hanno il culo sporco anche loro prima si ripuliscono per bene (anche a nostre spese) mentre noi non o possiamo fare, visto che abbiamo sostenuto ovunque di averlo “bello pulito” e poi tendono un agguato (annunciato e prevedibile) ad uno sgomento Tremonti e un Berlusconi sbalordito e all’EcoFin del 18 Ottobre 2010 mettono loro sotto il naso e fanno firmare la “dichiarazione di resa” dell’Italia.

Il nuovo “Patto di stabilità Europeo”.

Al di là del titolo in pratica si chiede (perentoriamente) all’impresa Italia di “rientrare” dai prestiti fatti. Basta polvere sottoterra. Basta pagare solo e soltanto gli interessi (come fanno i privati italiani alle loro banche) – vogliamo indietro anche il capitale.

Non si ripagano i debiti facendo ulteriori prestiti: avete 1170 miliardi di debito: ce ne ridate almeno il 50% – non subito, ma in dieci anni. Cinquanta miliardi l’anno, va bene?

Tremonti firma cupo, Berlusconi controfirma sorridendo: tutto Ok gente. Ha l’asso nella manica. Dice di sì ma poi aggiunge… Mica possiamo cominciare dall’oggi al domani cribbio! Dateci un po’ di tempo per prepararci.

Quel “po’ di tempo” si trasforma magicamente, tira e molla, in cinque anni.

SI tratta di una bella dilazione, ma bomba è innescata, il timer partito. Ma quando mai ci si preoccupa del futuro qui da noi? Coraggio, abbiamo cinque anni per rubare come nessuno mai e sistemarci noi e le famiglie per almeno sette generazioni a venire.

L’Eurogruppo sorride, si stringono le mani. Si stringono caldamente, perché prudono. Vorrebbero riempire gli italiani di schiaffi, ma il bon ton non lo permette. Per ora.

Li abbiamo fregati, come al solito.

Tornati da Bruxelles quelli che contano (tedeschi e francesi) si mettono al lavoro senza neanche levarsi la giacca: non possono dire la verità ai loro elettori, cioè che per ora dovranno ripianare loro i debiti italiani. Bisogna trovare una soluzione sottobanco. Ad esempio cambiare “gli italiani” con cui si parla. (avete letto chi c’è fra i relatori di “The Crisis Of Democracy”? Ah no? Fate male. Guardate.)

Il “regime change” non è nemmeno difficile: basta far trapelare la notizia dirompente “guardate che i soldi gli italiani non ce li ridaranno mai.”

Sai che notiziona! Tutto il sistema finanziario lo sa benissimo che sono soldi persi, e non solo quelli dati agli italiani. E allora?

E allora noi (tedeschi e francesi, e tutti quelli che dai tedeschi dipendono, e sono molti) non compriamo più i titoli di debito italiani, ecco cosa c’è. Né le nuove emissioni né quelli che avete in pancia voi. Chiaro? Soprattutto quelli!

Detto fatto: spread alle stelle, Tremonti nel panico, Berlusconi che viene giù dal pero. Facciamo qualcosa!!

Sì. Le valige.

Avete letto chi c’era nel board della Trilaterale?


Devo ricordarvi il resto? Il resto è solo una logica conseguenza.

Perché siete tutti qui a brontolare che Mario Monti (e i governi a seguire) non è stato mai “eletto” da nessuno? Semplicemente non è stato eletto dagli italiani.

Nel diritto fallimentare il liquidatore si nomina, mica lo si elegge.

E non è stato nominato dalla kattifa Europa (avete letto i nomi di chi sedeva nel board della Trilaterale, vero?).

Ricordate Powell: è meglio che la gente non sappia troppe cose.

Salve, gente…

E adesso? Dello ZIRP e NIRP sapete tutto, delle infamie di Renzi credete di sapere tutto, della realtà dei numeri anche lì sapete tutto. Cosa rimane da fare? Litigare su chi paga il conto. Ecco cosa rimane da fare.

Dovrei farmi IO veramente carico degli obbligazionisti bancari e dei titoli di stato di cui si sono immondamente riempite le banche stesse (e come, di grazia)?

Devo ripagare IO i debiti e/o continuare a mantenere gli italiani dai “diritti acquisiti” (con quale reddito, visto che guadagno meno di loro e non si sa nemmeno per quanto)?

Devo pagare IO la pensione ai miei nonni e ai miei genitori (e con quali soldi poi)?

Devo essere IO a correre in soccorso a chi ha vissuto anni evadendo il 90% del fatturato, non versando contributi o prendendo stipendi pubblici o del “parastato” mentre lavoravano in nero?

Devo pagare IO per i baby boomers, furboni delle baby-pensioni andati in pensione sui quarant’anni, mentre continuavano imperterriti a fare un secondo lavoro in nero?

Certo, è solo grazie alle riserve accumulate in quegli anni, e che sono enormi ma non eterne, che sinora abbiamo fronteggiato la crisi, ma a che prezzo? Una o due generazioni “bruciate”, un predominio di vecchi che ormai detengono tutte le leve economiche, e mettono in sella un “giovane” come Renzi come foglia di fico (anche se poi la foglia tende un po’ troppo a fare di testa sua e andrà rimosso presto). Una stagnazione economica dovuta all’ottica da “breve periodo” che per evidenti ragioni anagrafiche tutti i “vecchi” tendono ad avere: una folle resistenza al cambiamento, alle novità e all’innovazione.

Una stanca ripetizione del passato, improponibile, inutile, che non funziona, un rimandare ad un “dopo”, a “quando finirà la crisi”, spendendo soldi “fossili” da “fonti non rinnovabili”. Un tirare a campare finché dura, tanto a loro lassù, nella stanza dei bottoni, basta dare calci al barattolo.

E’ così che anche voi pensate di cavarvela?

Il mondo corre veloce e noi siamo ancora qui, storditi, con le risposte di ieri per i problemi di domani.

“Mama Maé prega perché il mondo va più veloce di me” (Negrita)

BY CORVOTORTO & ALESSIA
http://guardforangels.altervista.org/

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