di ROMANO BRACALINI
Confesso che non mi perdo mai la requisitoria di un P.M. italiano quando ho l’occasione di sentirlo in tribunale o alla TV. Non tanto per la ferrea logica, le metafore sconclusionate e le formule astruse esibite per raggiungere il suo scopo: ma per la lingua in cui sono esposte a detrimento del pubblico costretto ad assistere al massacro della sintassi. La P.M. Ilda Boccassini, a Milano da una vita, non solo parla con forte accento napoletano, ma ha un cattivo rapporto con l’italiano. Non è la sola. Sotto questo aspetto Di Pietro ha fatto scuola. L’ho sentito rivolgersi così a un testimone: ”Vorrei chiederle una domanda”.
l
Ma neppure Ingroia, di scuola palermitana, è un purista alla Basilio Puoti. Ci sarà da ridere quando prenderà servizio ad Aosta, dove si parla prevalentemente francese. In effetti il salto è eccessivo per lui: dalla Sicilia, in vista dei dromedari, agli stambecchi dei picchi nevosi.
La lingua è il veicolo essenziale per comunicare, quando la si conosce. Nel mondo giuridico internazionale le richieste di estradizione italiane sono famose per le motivazioni insufficienti, approssimative e poco chiare dal punto di vista linguistico.
Sono i magistrati del Sud quelli meno dotati. Un sintomo evidente delle condizioni in cui si trova la scuola di laggiù. Basta leggere le motivazioni delle sentenze. La sintassi è malferma, il vocabolario limitato. E tuttavia, a fronte di questo scarso bagaglio, i magistrati italiani hanno poteri enormi che esulano dai loro compiti specifici. Ogni tentativo di riformare la giustizia italiana sul modello europeo è fallito complice la debolezza dei governi e dei partiti (o l’appoggio dato ai giudici per combattere il “nemico” di turno, ieri Craxi, oggi Berlusconi) e le resistenze della categoria che vuol mantenere intatti i propri poteri e privilegi di casta. Succede in ogni epoca che i giudici acquisiscano potere “politico”, in ragione della diminuita autorità dello Stato, ma in nessun luogo come in Italia capita che il “terzo potere” colmi il vuoto politico lasciato dai partiti con la pretesa non solo di surrogare lo Stato ma addirittura di invocare un “governo togato” che dovrebbe avere la prerogativa di emettere sentenze con forza di legge: cosa che aumenterebbe la tendenza delle Corti ad estendere il proprio raggio d’azione sul piano politico ampliando la portata del conflitto con gli altri poteri dello Stato. Ma intendiamoci: non sono i giudici che hanno invaso il campo della politica; è lo Stato che glie lo ha consentito.
Il grado di “politicizzazione” dipende dal grado di tolleranza che gli altri organi istituzionali, governo, Parlamento, sono disposti a tollerare, senza pretendere di ricondurre l’azione dei giudici nell’ambito della loro specifica competenza. I giudici non fanno le leggi. O meglio non dovrebbero farle. Ma solo in Italia la norma è contraddetta dalla prassi. Chiesero una volta a un membro della Corte Suprema americana, John Smith: ”I giudici fanno le leggi?”. ”Certo che le fanno. Io stesso ne ho fatte alcune”. I giudici fanno le leggi nel momento in cui non applicano quelle che ci sono o solo si permettono di discuterle. L’immigrazione, specie quella clandestina, ce ne offre infiniti esempi. Di recente un magistrato italiano ha detto esplicitamente: ”E’ arrivato il momento di disobbedire alle leggi”.In quale altro Stato un magistrato avrebbe osato esprimere un concetto così eversivo senza finire sotto processo o essere cacciato per indegnità? E’ stata “l’orgia legislativa” del Welfare, lo Stato sociale (il primo a inventarlo fu il fascismo), con gli innumerevoli conflitti in materia di lavoro e una matassa normativa intricata di formule astruse e macchinose, interpretata per una giunta da una lingua mediocre e lacunosa,a richiedere continue e laboriose verifiche legali e costituzionali. Non è un mistero che la magistratura italiana sia la più scalcinata d’Europa, e la più potente. Così questa magistratura, chiamata con più frequenza a fare da arbitrato, ha finito per avere un compito esclusivo di mediazione tra le parti e in buona sostanza di esautorare lo Stato e di legiferare in sua vece, emettendo sentenze in forza di legge, come in un supposto e invocato “governo dei giudici”. Si aggiunga che i giudici godono di una sorta di immunità, non pagano se sbagliano, insieme al diritto di attentare allo spirito della legge e di massacrare a piacimento la lingua.
http://www.lindipendenza.com/la-giustizia-italiana-assomiglia-allitalia/
Confesso che non mi perdo mai la requisitoria di un P.M. italiano quando ho l’occasione di sentirlo in tribunale o alla TV. Non tanto per la ferrea logica, le metafore sconclusionate e le formule astruse esibite per raggiungere il suo scopo: ma per la lingua in cui sono esposte a detrimento del pubblico costretto ad assistere al massacro della sintassi. La P.M. Ilda Boccassini, a Milano da una vita, non solo parla con forte accento napoletano, ma ha un cattivo rapporto con l’italiano. Non è la sola. Sotto questo aspetto Di Pietro ha fatto scuola. L’ho sentito rivolgersi così a un testimone: ”Vorrei chiederle una domanda”.
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Ma neppure Ingroia, di scuola palermitana, è un purista alla Basilio Puoti. Ci sarà da ridere quando prenderà servizio ad Aosta, dove si parla prevalentemente francese. In effetti il salto è eccessivo per lui: dalla Sicilia, in vista dei dromedari, agli stambecchi dei picchi nevosi.
La lingua è il veicolo essenziale per comunicare, quando la si conosce. Nel mondo giuridico internazionale le richieste di estradizione italiane sono famose per le motivazioni insufficienti, approssimative e poco chiare dal punto di vista linguistico.
Sono i magistrati del Sud quelli meno dotati. Un sintomo evidente delle condizioni in cui si trova la scuola di laggiù. Basta leggere le motivazioni delle sentenze. La sintassi è malferma, il vocabolario limitato. E tuttavia, a fronte di questo scarso bagaglio, i magistrati italiani hanno poteri enormi che esulano dai loro compiti specifici. Ogni tentativo di riformare la giustizia italiana sul modello europeo è fallito complice la debolezza dei governi e dei partiti (o l’appoggio dato ai giudici per combattere il “nemico” di turno, ieri Craxi, oggi Berlusconi) e le resistenze della categoria che vuol mantenere intatti i propri poteri e privilegi di casta. Succede in ogni epoca che i giudici acquisiscano potere “politico”, in ragione della diminuita autorità dello Stato, ma in nessun luogo come in Italia capita che il “terzo potere” colmi il vuoto politico lasciato dai partiti con la pretesa non solo di surrogare lo Stato ma addirittura di invocare un “governo togato” che dovrebbe avere la prerogativa di emettere sentenze con forza di legge: cosa che aumenterebbe la tendenza delle Corti ad estendere il proprio raggio d’azione sul piano politico ampliando la portata del conflitto con gli altri poteri dello Stato. Ma intendiamoci: non sono i giudici che hanno invaso il campo della politica; è lo Stato che glie lo ha consentito.
Il grado di “politicizzazione” dipende dal grado di tolleranza che gli altri organi istituzionali, governo, Parlamento, sono disposti a tollerare, senza pretendere di ricondurre l’azione dei giudici nell’ambito della loro specifica competenza. I giudici non fanno le leggi. O meglio non dovrebbero farle. Ma solo in Italia la norma è contraddetta dalla prassi. Chiesero una volta a un membro della Corte Suprema americana, John Smith: ”I giudici fanno le leggi?”. ”Certo che le fanno. Io stesso ne ho fatte alcune”. I giudici fanno le leggi nel momento in cui non applicano quelle che ci sono o solo si permettono di discuterle. L’immigrazione, specie quella clandestina, ce ne offre infiniti esempi. Di recente un magistrato italiano ha detto esplicitamente: ”E’ arrivato il momento di disobbedire alle leggi”.In quale altro Stato un magistrato avrebbe osato esprimere un concetto così eversivo senza finire sotto processo o essere cacciato per indegnità? E’ stata “l’orgia legislativa” del Welfare, lo Stato sociale (il primo a inventarlo fu il fascismo), con gli innumerevoli conflitti in materia di lavoro e una matassa normativa intricata di formule astruse e macchinose, interpretata per una giunta da una lingua mediocre e lacunosa,a richiedere continue e laboriose verifiche legali e costituzionali. Non è un mistero che la magistratura italiana sia la più scalcinata d’Europa, e la più potente. Così questa magistratura, chiamata con più frequenza a fare da arbitrato, ha finito per avere un compito esclusivo di mediazione tra le parti e in buona sostanza di esautorare lo Stato e di legiferare in sua vece, emettendo sentenze in forza di legge, come in un supposto e invocato “governo dei giudici”. Si aggiunga che i giudici godono di una sorta di immunità, non pagano se sbagliano, insieme al diritto di attentare allo spirito della legge e di massacrare a piacimento la lingua.
http://www.lindipendenza.com/la-giustizia-italiana-assomiglia-allitalia/
Condivido! L' italia del sud e' ststa sempre serbatoio di statali! Magistrati, poliziotti, eserciti vari, per cui sono richieste coscienze egoistiche, e di basso livello spirituale. Sono gli agenti Smith! "Matrix" la sporcizia in cui vivono i napoletani, ad esempio, e: il riflesso materiale della loro coscienza, della loro anima, considerando l'insieme della popolazione. Questa e' la nuova era! Non c'e' piu' posto per le scimmie!
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