mercoledì 16 dicembre 2015

TURCHIA A SECCO DI ENERGIA DOPO LA CRISI CON LA RUSSIA



Niente Turkish Stream. Stop al piano atomico per Akkuyu. Sanzioni dal 2016. Così Putin mette in ginocchio Erdogan. Addio progetti da potenza emergente.

Recep Tayyip Erdogan si chiede perché «le relazioni tra Ankara e Mosca debbano essere danneggiate da un errore di un pilota».

Ma Mosca è di diversa idea.

«Finché non ci saranno scuse ufficiali per il jet abbattuto sul confine con la Siria, la altre dichiarazioni fatte dalla Turchia non porteranno ad alcun risultato», ha replicato poco diplomaticamente l’ambasciatore russo sul Bosforo, Andrey Karlov.

RISCHIO RECESSIONE. Erdogan trema, anche perché la crisi con il vicino potrebbe rallentare l’ingresso in Europa e lasciare il Paese a secco di energia, facendolo cadere in recessione.
La tensione tra i due Paesi resta altissima.
Al largo del mare Egeo una nave da guerra russa ha sparato alcuni colpi di avvertimento contro un peschereccio turco «per evitare una collisione».
Questa almeno la versione della Difesa russa, mentre il ministero degli Esteri convocava in tutta fretta l’addetto militare turco a Mosca.

ANKARA RIDIMENSIONATA. L’abbattimento del bombardiere Sukhoi Su-24M da parte dell’Air Force turco F-16 il 24 novembre al confine siriano potrebbe spingere Ankara a rinunciare al suo ruolo di potenza emergente: non a caso, nel terzo trimestre del 2015 è cresciuta del 4%.


SANZIONI DA 20 MILIARDI. Le sanzioni ai prodotti del vicino che Putin è pronto a rendere operative da gennaio 2016 potrebbero costare al Paese circa 20 miliardi di euro.
Soltanto le importazioni di frutta, verdura e pollame valgono un miliardo di euro.
Per biglietti aerei e pernottamenti sul Bosforo i ricchi russi spendono ogni anno quattro miliardi.
Ma è poca cosa rispetto a quello che potrebbe avvenire in campo energetico.


(© Getty Images) L’amministratore delegato della Gazprom e il presidente della Russia Putin.
Erdogan versa a Gazprom 30 miliardi di dollari all’anno


La Turchia, in questo ambito, è storicamente dipendente dal gas russo: ogni anno versa nelle casse di Gazprom più di 30 miliardi di dollari per altrettanti miliardi di metri cubo di metano.
Nel recente passato ha provato a liberarsi dal giogo di Mosca seguendo due strade.
In primo luogo ha accelerato gli investimenti sulle rinnovabili.

PIANI AMBIZIOSI. L’Electricity Market and Security of Supply Strategy Paper, pubblicato dal ministero dell’Energia turco nel 2009, prometteva che il Paese producesse da fonti verdi il 30% del suo fabbisogno entro il 2023.
Sull’altro versante, e forte della collocazione della Nato, si era offerta a ospitare i gasdotti di Nabucco, e cioè la grande pipeline voluta da Unione europea e Stati Uniti per trasportare 31 miliardi di metri cubi di gas dal Caspio e dal Medio Oriente fino all’Austria.

ALTA DOMANDA INTERNA. Se di Nabucco si sono perse le tracce, Ankara si è resa conto che non erano sufficienti le rinnovabili per sostenere la crescita di un Paese dove la domanda interna corre in maniera vorticosa.
Da qui, e sfidando il fronte nazionalista, la scelta di cedere alle lusinghe di Putin e di diventare la porta in Europa del gasdotto russo Turkish Stream in chiave anti-Ue dopo gli ostacoli a South Stream.
In cambio appalti per due miliardi di dollari e ricche royalty su 16 milioni di metri cubi gas a buon mercato.
Per non parlare delle forniture di metano a prezzo politico.


Un gasdotto russo
Turchi costretti a rivolgersi al Kurdistan iracheno

L’abbattimento del bombardiere Sukhoi Su-24M ha fatto evaporare i piani di Erdogan su questo fronte.
Il 3 dicembre il ministro dell’Energia russo, Alexander Novak, ha annunciato il congelamento dei lavori per Turkish Stream.

ADDIO APPALTI RICCHI. Pochi giorni dopo ecco il colosso dell’atomo Rosatom far sapere di voler interrompere lo sviluppo della centrale atomica di Akkuyu, che doveva essere la prima su suolo turco, mandando così all’aria un appalto da 20 miliardi.
Ma le cose sono soltanto destinate a peggiorare.

SITUAZIONE DI ACCERCHIAMENTO. La comunità internazionale sta facendo pressioni su Ankara per bloccare le vendite del petrolio gestito dall’Isis, che vedono proprio la Turchia come suo principale mercato di scambio.
Una situazione di accerchiamento che potrebbe favorire il Kurdistan iracheno, pronta a ‘salvare’ gli ex nemici di un tempo mettendo a disposizione i 5 mila miliardi di metri cubi di gas scoperti nel loro territorio.
Il tutto, va da sé, a carissimo prezzo per evitare la recessione.

Tratto da: Informare per Resistere

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