Ieri quattro soldati di Damasco sono stati uccisi e altri 13 sono stati feriti in un bombardamento aereo condotto probabilmente da caccia statunitensi su una base dell’esercito governativo siriano a Saeqa, località nella provincia di Deir Ezzor, nell’est del paese. Secondo quanto riportato da alcuni media arabi e dal cosiddetto Osservatorio Siriano per i diritti umani (un gruppo vicino ai ribelli basato a Londra che, quando vuole, sa essere oggettivo e informato) quattro bombardieri a stelle e strisce avrebbero condotto ripetuti raid che oltre a provocare vittime avrebbero anche distrutto veicoli blindati e un deposito di armi, munizioni e mitragliatrici. Un regalo non indifferente ai jihadisti, anche se si fosse in presenza di “un errore” non voluto.
Per ora Washington continua a negare l’accaduto: “Non abbiamo condotto alcun bombardamento ieri a Deir Ezzor” ha insistito oggi il colonnello Warren, portavoce della coalizione. Segno che i bombardamenti sono stati condotti da aerei di qualche altro paese della coalizione obamiana, magari da quelli delle petromonarchie arabe che continuano a considerare Daesh e gli altri gruppi jihadisti il male minore rispetto ai regimi sciiti? E’ ancora presto per dirlo, le informazioni sono scarse. Però certo una simile provocazione potrebbe rappresentare un tentativo, più che esplicito, di far saltare il patto di collaborazione seppur indiretta attiva da qualche tempo tra le potenze rivali – tra Russia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia – intervenute sul fronte siriano con l’apparente comune intento di annichilire il Califfato ma con assai diversi progetti per la Siria. E i principali attori interessati a far saltare il tavolo di Vienna sono proprio le petromonarchie, oltre alla Turchia. Oppure gli Stati Uniti stessi, dove accanto ad un tentennante Barack Obama prendono sempre più piede settori militari e politici intransigenti che non sopportano il compromesso di Washington con Mosca e Teheran.
Intanto però il governo di Damasco, nella fattispecie il ministro degli Esteri siriano, ha denunciato la “palese aggressione che viola chiaramente la carta dell’Onu” e si è rivolto alle Nazioni Unite affinché intervengano urgentemente.
Su un altro fronte, ma comunque legato alla sempre più ingarbugliata situazione siriana, Iraq e Turchia sono sempre più ai ferri corti dopo che nei giorni scorsi una brigata corazzata dell’esercito turco è penetrata nella provincia di Ninive, prendendo possesso di una base a Bashiqa, località a circa 30 km da Mosul, città occupata dai miliziani jihadisti del Califfato. Il governo turco si difende affermando che i suoi militari, accompagnati da carri armati e artiglieria, sono stati invitati dal governo regionale curdo guidato da Massud Barzani, allo scopo di continuare l’addestramento dei suoi peshmerga iniziato nei mesi scorsi, e di coadiuvare alcune milizie sunnite che controllano alcune propaggini di Mosul. Ma tra i peshmerga qualche comandante ha rivelato che in realtà i turchi starebbero preparando una offensiva per conquistare Mosul, che del resto è già circondata dalle truppe agli ordini del governo regionale dei curdi iracheni, che pure continuano a ribadire che non hanno alcun interesse a prendere la seconda città del paese.
Ieri quindi il governo di Baghdad ha alzato i toni della protesta, inviando un ultimatum di 48 ore al premier turco Ahmet Davutoglu. Se i soldati turchi non rientreranno nei propri confini, ha minacciato l’esecutivo iracheno, il paese assumerà “ogni opzione a sua disposizione” pur di far riassumere la piena sovranità del proprio territorio. Il governo turco ha inviato una missiva al premier iracheno al-Abadi dichiarando di aver sospeso l’invio di altri militari nella provincia di Ninive. Un compromesso che però – non essendo un ritiro – non può di certo soddisfare l’esecutivo iracheno che teme, non a torto, le mire territoriali di Ankara. D’altronde Erdogan da tempo sfrutta le ottime relazioni commerciali, politiche e militari con i curdi collaborazionisti di Erbil (fieri avversari delle Ypg curdo-siriane e del Pkk curdo-turco) per approvvigionarsi di petrolio bypassando il governo di Baghdad e potrebbe essere in procinto di dare il via all’occupazione di una parte del territorio iracheno per dar man forte ad un'avanzata verso sud dei peshmerga che, con le truppe irachene impegnate contro Daesh, potrebbe trovare scarsa resistenza. Un protettorato turco nei territori sunniti dell’Iraq e/o il rafforzamento del semistato curdo nel nord demolirebbero ciò che resta di uno Stato, attualmente governato da un esecutivo filo-iraniano, di fatto già dinamitato dai tempi dell’invasione e dell’occupazione statunitense. Questo mentre da settimane, nella zona petrolifera di Kirkuk, fuori dai territori curdi ma sotto il controllo dei peshmerga, sono in atto scontri armati tra questi ultimi e alcune milizie sciite.
E’ evidente che la Russia, che ha creato proprio a Baghdad un centro di coordinamento militare con siriani, iraniani e iracheni, non può accettare l’interventismo militare turco in Iraq.
E quindi, se la Turchia pretendeva di raffreddare la tensione con la Russia schizzata alle stelle a causa dell’abbattimento del caccia di Mosca sul suolo siriano, l’intervento militare turco in territorio iracheno sta producendo esattamente l’effetto contrario. Dopo le prime sanzioni e ritorsioni commerciali decise dal governo di Mosca, gli incontri al vertice negati, la sospensione del regime di esenzione dall'obbligo dei visti per i cittadini turchi, le accuse rivolte dal Cremlino a Erdogan e alla sua famiglia di contrabbandare il petrolio di Daesh, sono arrivati nei giorni scorsi nuovi passi.
Uno in particolare impensierisce il regime di Ankara: la proposta di Mosca agli Stati Uniti di far approvare all’Onu una risoluzione che permetta di sanzionare i paesi e i privati che fanno affari con l’Isis; la Turchia non è citata ma tutti sanno contro chi è diretta principalmente la misura e proprio oggi il premier iracheno Haider al-Abadi ha affermato. nel corso di un incontro con il capo della diplomazia tedesca Frank-Walter Steinmeier arrivato a Baghdad, che la maggior parte del petrolio contrabbandato dallo Stato islamico passa dalla Turchia, unendosi al coro di Paesi che legano Ankara al finanziamento dei jihadisti. Stessa pesante accusa ribadita dal governo iraniano recentemente.
Da parte sua la Turchia ha convocato l'ambasciatore russo dopo le foto apparse sulla stampa turca di un soldato di Mosca che brandisce un lanciarazzi a bordo di una nave da guerra russa, la "Caesar Kunikov", che attraversava il Bosforo.
Una mossa evidentemente provocatoria che la dice lunga sullo stato dei rapporti tra i due paesi che solo alcuni mesi fa sembravano in procinto di siglare importanti accordi geopolitici in nome della rottura del reciproco isolamento.
Il ministro degli Esteri di Ankara, Mevlut Cavusoglu, ha minacciato in futuro «risposte necessarie ad azioni considerate una minaccia». C’è da giurare che l’escalation nell’area vivrà presto nuovi momenti di drammatizzazione…
da contropiano
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