martedì 2 febbraio 2016

IRAN: LA NUOVA CINA?


Se l’Iran riuscisse ad avere un programma di sviluppo economico simile a quello cinese migliorerebbe significativamente la propria rilevanza geopolitica.

Si parla di 50-50 se si cerca di stabilire chi sia più stakanovista a livello geopolitico al giorno d’oggi tra il presidente cinese Xi Jinping e quello iraniano Hassan Rouhani.



I loro cammini si sono incrociati la scorsa settimana a Teheran quando hanno siglato una fondamentale partnership. Le due nazioni hanno stabilito di aumentare i commerci bilaterali di un importo di 600 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. Geostrategicamente, come ho già sottolineato, è stato un colpo da maestri.

Pechino considera l’Iran, non solo nel sudovest asiatico, ma per tutta l’Eurasia, come l’hub fondamentale per contrastare l’arcinoto “pivot asiatico” di Washington, basato sull’egemonia navale statunitense. Non c’è da stupirsi che Xi abbia sottolineato come l’Iran verrà accettato a pieno titolo come membro dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) all’inizio di quest’anno.


Una partnership strategica implica che Pechino supporterà pienamente la rinascita politica/economica/diplomatica iraniana nell’arco che va dal Golfo Persico al Mar Caspio – e oltre. L’arco, guarda caso, si stende sulle rotte via terra e marittime delle Nuove Vie della Seta che sono di vitale importanza per lo sviluppo del sogno cinese creato da Xi.

Solo alcuni giorni dopo, Rouhani era a Roma ad un incontro a porte chiuse con Papa Francesco, dopo aver siglato svariati accordi per un ammontare totale di 17 miliardi di dollari.

Questa frenetica attività post-sanzioni ingigantisce solo, in prospettiva, l’assurdità della crisi nucleare iraniana messa in piedi da Washington. Il realismo geopolitico, dall’Europa all’Asia, non può ignorare una nazione sita all’intersezione tra i mondi: arabo, turco, indiano e russo, la quale detiene il ruolo di ingresso privilegiato al vasto blocco asiatico-caucasico, che include anche l’Afghanistan.

Strategicamente, come crocevia eurasiatico, l’Iran è imbattibile, unendo Medio Oriente, Caucaso, Asia Centrale, subcontinente indiano; circondata da tre mari: Caspio, Golfo Persico e Mare d’Oman; relativamente vicina al Mediterraneo ed all’Europa e sulla soglia dell’Asia.

Xi non ha dovuto esplicitamente tirar fuori la politica a Teheran, è bastato siglare un accordo dietro l’altro per rendere ben chiara l’idea. Il trend a lungo termine, inevitabilmente, per la visione cinese “una cintura, una via” è di diminuire il gap verso una leadership sino-russa in Eurasia, il che in pratica si traduce nella progressiva eliminazione dell’influenza anglo-statunitense. Nel frattempo, Italia e Francia, durante il tour europeo di Rouhani, si sono tenute impegnate per rimettersi in pari con i programmi messi in standby.

Quando Khamenei diventa Deng

La scena frenetica post-sanzioni cozza contro la precedente demonizzazione occidentale e pone le basi per uno sviluppo economico in ogni ambito. La Repubblica Islamica dell’Iran ha affrontato un tremendo handicap per gli ultimi 36 anni – qualcosa che avrebbe fatto a brandelli qualsiasi società dotata di minori risorse.

Le sanzioni negli ultimi 10 anni sono costate all’Iran almeno 480 miliardi di euro: circa un anno intero del PIL nazionale. In un mondo non governato dai soliti sospetti dell’oligarchia finanziaria, Teheran potrebbe portare Washington di fronte ad un tribunale.

Per quanto riguarda il meme dell’ “aggressione iraniana” – che tra l’altro, è ancora in piedi – è una barzelletta imperialista. L’Iran spende il 3,9% del PIL in difesa, il pozzo petrolifero chiamato Casa di Saud spende il 10,3. In tutto l’Iran spende per la difesa sette volte meno delle petrolmonarchie del Golfo, le quali quasi non potrebbero armarsi se non ci fossero USA, Regno Unito e Francia.

La strada che l’Iran si trova di fronte è sconnessa. Ci sono gravi problemi come corruzione, incompetenza burocratica e interi settori dell’economia preclusi agli investimenti stranieri. Grandi parti delle elite al potere – come i bonyads (fondazioni a carattere religioso) e il pasdaran (l’IRGC) non sono proprio dell’idea di togliere le mani da importanti settori dell’economia. L’apertura economica accelererà sicuramente la trasformazione sociale della nazione.

Ciò che succederà dipende molto dalle elezioni di febbraio – le quali insedieranno un nuovo Majlis (Parlamento) e una nuova Assemblea di Esperti incaricata di scegliere il prossimo Supremo Leader.

L’Iran è un caso geopolitico unico – in cui una repubblica ottiene la propria legittimità, contemporaneamente, dall’Islam e dal suffragio universale. Non si tratta di una classica democrazia parlamentare occidentale, ma al contempo non è una copia del crudo autoritarismo saudita. C’è un sistema abbastanza complesso di controlli e di bilanciamenti, che coinvolge il Presidente, il Parlamento, il Consiglio dei Guardiani, l’Assemblea degli Esperti e altri elementi come il Consiglio del Discernimento e il Consigio di Sicurezza Nazionale.

Il leader supremo, l’ayatollah Khamenei, ha detto apertamente che porrà molta attenzione alle conseguenze politiche, culturali e di sicurezza di un’apertura economica che potrebbe fiaccare l’ideologia rivoluzionaria della Repubblica Islamica. Ciò che è certo è che il Leader Supremo – come un arbitro – preserverà il delicato equilibrio delle forze politiche in Iran.

Ciò significa, in pratica, che al Team Rouhani non sarà permesso di ottenere capitale politico illimitato dall’apertura, al contempo la trasformazione sociale e culturale della nazione non sarà sinonimo di invasione culturale occidentale.

L’accordo sul nucleare di Vienna siglato la scorsa estate è stato un terremoto geopolitico in Iran. Internamente, ha creato consenso tra la macchina statale di Teheran e la maggioranza della popolazione, che non desiderava altro che ritornare a far parte di una “nazione normale”.

Ora arriva il difficile. Lo scenario più probabile mostra chiaramente una Repubblica Islamica dell’Iran che intraprende un programma di sviluppo economico in stile cinese. Una sorta di remix persiano del “diventare ricchi è glorioso”, sotto stretto controllo politico.

La domanda è: siamo pronti al Leader Supremo in un ruolo di Deng Xiaoping iraniano?



Pepe Escobar è autore di Globalistan: How the Globalized World is Dissolving into Liquid War (Nimble Books, 2007), Red Zone Blues: a snapshot of Baghdad during the surge (Nimble Books, 2007), e Obama does Globalistan (Nimble Books, 2009). Può essere contattato a pepeasia@yahoo.com.

Fonte: http://www.juancole.com/

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